Da Caporetto al Piave
Ripercorriamo l'itinerario fatto dalla gente e dai soldati
«24 ottobre 1917 - Alle ore 2,30 precise del mattino cominciano a fischiare sopra la canonica le granate austriache verso Merso Superiore, Osgnetto, Crostù. Grande panico, ma nessuna vittima o disgrazia.
Qualche granata cade anche durante il giorno. Scappano da Scrutto e Osgnè diverse famiglie».
Con questa scarna nota il parroco di San Leonardo, don Giovanni Petricig; ricorda sul libro storico della parrocchia l’inizio della disfatta di Caporetto, che oggi viene definita come la prima e la più grande guerra-lampo condotta in territorio montano.
Il prossimo 24 ottobre ricorre l’ottantesimo anniversario di questo evento storico, che è entrato tra i modi di dire delle lingua italiana per indicare un disastro completo, una grave sconfitta, una ritirata e una resa senza condizioni.
Nel ricordare questo anniversario non andremo ad analizzare le cause strategico-militari che sono all’origine della battaglia nè lo sviluppo degli avvenimenti che in pochi giorni spinsero le truppe italiane oltre il Piave: su questi fatti esiste un’abbondante letteratura ed eventualmente ci torneremo su se avremo a disposizione dati nuovi ed originali.
Ci interessa piuttosto l’impatto che la disfatta ha avuto sulla popolazione che dopo due anni di sacrifici e disagi dovuti alla improduttiva guerra di trincea è stata travolta da improvvise ondate di militari in fuga o all’inseguimento e in mezzo al fuoco incrociato di artiglierie.
Era una notte piovosa e fredda quella del 24 ottobre 1917 e nella valle dell’Isonzo, da Caporetto verso Tornino, ristagnava la nebbia.
Il rombo dei cannoni austriaci ruppe improvvisamente un silenzio carico d’attesa e i sinistri lampi degli spari si ripetevano sulle alture con insolita rapidità e insistenza.
A Caporetto e nei dintorni i soldati italiani che riposavano negli accampamenti e la popolazione rimasta nei paesi si diedero ad una fuga precipitosa e senza meta.
A Svino la gente con i bambini in braccio correva per il paese tra lo scoppio delle granate e si nascondeva nei rifugi più impensati.
Il comando della 34. divisione appena costituita e arrivata appena la sera precedente a Suhid, non capiva ciò che stava succedendo, così senza alcuna direttiva si diresse verso Caporetto.
Anche qui la gente correva per le strade nella direzione indicata dalle autorità italiane:
oltre il ponte sulla sinistra dell’Isonzo dove cercarono rifugio a Zaročišče e sulle pendici del Volnik.
Ma non tutti obbedirono all’ordine e si barricarono nelle case.
Quando verso il mattino il bombardamento diminuì, cominciaro a tornare in paese singole persone, in particolare commercianti stranieri, che si preparavano a fuggire nonostante le autorità assicurassero che la situazione era sotto controllo.
Ad un certo punto dalla strada per Bovec / Plezzo cominciarono ad arrivare colonne di soldati italiani in fuga che non davano retta agli ufficiali che comandavano loro di fermarsi e di organizzare la difesa. Anzi per strada si liberavano delle armi e delle munizioni per accelerare la fuga da quell’inferno.
Lo sfondamento della 12. divisione slesiana verso Idrsko e i primi spari che arrivavano da quella direzione accrebbero la confusione a Caporetto.
A farne le spese fu il cosiddetto ponte di Napoleone fatto saltare dai genieri italiani.
Con questa iniziativa gli italiani, che pensavano di arginare l’avanzata dei tedeschi provenienti da Kamno, condannarono alla prigionia centinaia di soldati che si trovavano sulle pendici del Monte Nero e sulle montagne vicine.
Anche i tentativi di reparti italiani allo sbando di organizzare una linea di contenimento presso Idrsko si rivelarono inutili. Ai soldati italiani rimaneva solo la strada della fuga.
Dopo le truppe tedesche a Caporetto arrivarono anche quelle austro-ungariche e così l’italiano, in uso dal maggio 1915, venne sostituito dal tedesco, ma non era difficile sentire gli accenti delle tante altre lingue presenti nell’impero.
Gli abitanti di Caporetto, Sužid e Svino in quei giorni di fine ottobre tirarono fuori dagli armadi e cassepanche le vecchie bandiere slovene e imperiali e le appesero lungo le strade, sulle fmestre e i poggioli.
---++Il bombardamento del Colovrat
Già al mattino del fatidico 24 ottobre il Colovrat, che si affaccia sulle valli del Natisone, venne interessato dai bombardamenti austriaci.
Sulle falde del monte si era attestata la 19. divisione comandara dal generale Giovanni Villani, che aveva posto il suo quartiere nel paese di Clabuzzaro.
«In quel mattino del 24 ottobre, uscito dagli alloggi con animo fermo e per nulla impressionato dal fortissimo bombardamento, il Villani era accorso tra i reparti di prima linea, e sprezzando ogni consiglio di prudenza, sotto l’imperversare del fuoco nemico che, scherzosamente diceva, non so per qual patto tra lui e gli austriaci intercorso avrebbe dovuto risparmiarlo, aveva percorso le posizioni più esposte, vigilando che ognuno fosse pronto per l’imminente prova».
Così Giuseppe Del Bianco nella sua vasta operà «La guerra e il Friuli» (vol. III, Udine 1952, pag. 80) ricorda il generale Villani e più avanti così descrive il bombardamento del Colovrat:
«Una tempesta di ferro e di fuoco, che sembrava avesse dovuto incendiare e sommergere tutta la montagna, si abbatteva infatti, in quella notte del 24 ottobre, sulle linee tenute dalla 19. divisione.
Cannoni e bombarde tuonavano incessantemente, e cadevano i proiettili gli uni di seguito agli altri, sconvolgendo con furore il terreno, e dove uno aveva aperto un cratere, tosto l’altro vi si precipitava per allargarnelo, mentre l’aria, da così spaventoso fragore percossa, andava arroventandosi e ammorbandosi di venefici gas, che rendevano precaria l’esistenza degli uomini e degli animali, nonché all’aperto, anche nei protetti ricoveri.
Questi, presi particolarmente di mira, simili a giocattoli di carta pesta si sfasciavano, e rovinando i tetti giù crollavano anche i muri, seppellendo quanti vi si fossero trovati, mentre nelle caverne, scavate in opportuni angoli morti, si raccoglievano e stagnavano insaccandosi i gas, i quali fugavano gli infelicissimi che ivi si trovavano e che sprovvisti di maschera non sapevano più dove salvarsi e a che santo votarsi...
Dichiarazioni da me raccolte tra gli abitanti di Clabuzzaro e di Lombai ― scrive ancora Del Bianco ― affermano che durante la notte dal 23 al 24 ottobre, e durante la giornata del 24, il bombardamento da parte del nemico fu tale che tutte le cime dal Colovrat al Ježa apparvero siccome ingoiate da un mare di fuoco.
Cessata la battaglia gli abitanti stessi, ai quali si unirono quelli di tutto il comune di Drenchia, girarono per parecchi giorni quelle desolate posizioni, sconvolte dalla belluina violenza del cannone, raccogliendo le salme, chè per i feriti avevano già pensato i germanici.
Sullo Ježa in modo particolare erano i morti.
In una sola caverna certo Antonio Namor fu Giovanni ne raccolse diciannove.
Oltre un centinaio di salme vennero poi rintracciate nei dintorni di Drenchia.
La maggior parte dei caduti ― mi raccontò il parroco don Antonio Domenis che provvide a dar loro sepoltura ― portava ancora sul volto l’espressione del grande terrore provato; molti erano morti asfissiati dai gas; taluno fu trovato col capo coperto dal tascapane o da un telo da tenda che si era tirato sopra, quasi a nascondersi la vista di tanto orrore!
Anche a Solarie e sulle Cime del Kolovrat vennero raccolte numerosissime salme di soldati italiani.
Tutti i cadaveri erano stati spogliati dalle scarpe, essendone sprovvisti i soldati imperiali». (Del Bianco, o. c., pp. 82 - 83).
Ma quale sorte ha subito la gente dei paesi del Comune di Drenchia appesi sui fianchi del Colovrat?
Queste scene riportate dal Del Bianco rendono sufficientemente l’idea del terrore che aveva pervaso quella povera gente che si era trovata nella prima prima linea di quella furiosa battaglia.
«Il parroco di Drenchia ―paese posto sul versante occidentale del Kolovrat, e quindi in posizione ben riparata ―don Antonio Domenis, uscito nell’orto della canonica per rendersi conto di quanto accadeva, colto da asfissia, dovette tosto rientrare, perché l’aria era divenuta irrespirabile, mentre don Giovanni Guion, parroco di San Volfango, al primo scatenarsi di tanta rovina era costretto ad abbandonare precipitosamente Clabuzzaro ― sede del comando della 19. divisione ― seguito dagli abitanti che, urlando di terrore, fuggivano dalle loro case, e giù correvano verso la valle, chi recando in braccio i bambini, chi sorreggendo i vecchi, tutti raccomandandosi a Dio, chè solamente Iddio potevali salvare in così spaventoso frangente.
Sembravano eruttar fiamme le montagne circostanti e un mare di fuoco pareva stendersi sulla vallata sottostante, ove con sinistro frastuono piombavano i proiettili, provocando incendi, e sollevando zaffate di terra che, simili a getti di fontane incandescenti, dovunque zampillavano, arroventando l’aria». (Del Bianco, o. c., pp. 46-47).
I segni dell’imminente tragedia, che si Stava compiendo sulle montagne, giunsero anche nel fondovalle dove piombavano granate e scoppiavano incendi, tanto che a San Pietro al Natisone, distante di qualche decina di chilometri dal teatro dei combattimenti, nelle prine ore del mattino di quell’infausta giornata si stese una leggera nebbia e si diffuse un così acre odore di bruciaticcio da mozzare il respiro, dando la sensazione della imminente rovina.
Rommel dal Colovrat al Matajur
Fu il ventiseienne ufficiale delle truppe alpine tedesche, Erwin Johannes Rommel (1891
- 1943), a mettere piede sulla vetta del Matajur nella tarda mattinata del 26 ottobre al termine di una serie di veloci ed audaci azioni che permisero alle sue truppe di conquistare, nel corso della notte e delle prime ore del mattino, il paese di Jevšček, il monte Cragonza e il Mrzli Vrh.
Ma a questo punto è forse necessario fare un passo indietro per ripercorrere il cammino fino al Matajur fatto da quel giovane tenente che diventerà uno dei protagonisti della seconda guerra mondiale e verrà ricordato come la «Volpe del deserto».
Per queste sue azioni sulle nostre montagne Rommel verrà insignito della più alta onorificenza dell’esercito tedesco.
Reduce dalla campagna di Romania, Erwin Rommel arriva sul fronte dell’Isonzo, precisamente a Kneža, il 21 ottobre, dopo lunghe marce notturne da Kranj. E arruolato nel battaglione da montagna Wtittemberg, che entra a far parte della 14. armata di nuova formazione e viene assegnato al Corpo alpino.
Nel quadro dell’attacco al fronte italiano il battaglione di Rommel ha il compito di proteggere il fianco destro del reggimento guardie del corpo, di neutralizzare le batterie italiane presso Foni, di conquistare il Kolovrat e di arrivare fino al Matajur.
Superate nella notte e nel mattino del 24 ottobre la prima posizione italiana nel fondovalle e la seconda a metà costa, verso le 11 Rommel si trova sul Hjevnik e si dirige verso il Kolovrat.
Dopo la notte passata all’addiaccio, al mattino del 25 ottobre parte l’offensiva alle postazioni italiane ben posizionate per difendersi dall’attacco degli austro-tedeschi dal versante che guarda l’Isonzo.
Rommel non affronta direttamente le posizioni italiane, ma si infila con astuzia e circospezione tra le maglie della fitta rete di postazioni e attacca da tergo le truppe italiane che sono costrette ad arrendersi.
Dopo aver conquistato il Kolovrat, si dirige verso il monte Cucco, arriva a Ravne e da qui piomba sulla strada che collega Cepletischis a Luico.
Qui fa prigionieri cinquanta ufficiali e duemila soldati della quarta divisione Bersaglieri.
Da questa posizione nel pomeriggio gli uomini di Rommel si dirigono verso Jevšček, il Cragonza e il Mrzli Vrh, che vengono conquistati nella notte e nelle prime ore del mattino del 26 ottobre.
Anche queste posizioni vengono raggiunte quasi senza spargimento di sangue: l’astuzia, l’audacia, la velocità e la sorpresa sono le componenti essenziali dell’operazione.
Le truppe italiane, che aspettano il nemico rivolte verso la valle dell’Isonzo, vengono colte alle spalle e non resta loro che deporre le armi.
Ecco come lo stesso Rommel descrive la resa del primo reggimento della brigata Salerno attestato sul Mrzli Vrh:
«Dal nemico ci separano ormai solo centocinquanta metri!
Poi, improvvisamente, la massa lassù comincia a muoversi.
I soldati si precipitano verso di me sul pendio trascinando con loro gli ufficiali che vorrebbero opporsi.
I soldati gettano quasi tutti le armi.
Centinaia di essi mi corrono incontro.
In un baleno sono circondato e issato sulle spalle italiane.
“Viva la Germania!”
gridano mille bocche.
Un ufficiale italiano che esita ad arrendersi viene ucciso a fucilate dalla propria truppa.
Per gli italiani sul Mrzli Vrh la guerra è finita.
Essi gridano di gioia».
(E. Rommel, Fanterie all’attacco, Longanesi, Milano 1972, p. 303)
«Mentre il reggimento disarmato si mette in marcia nella direzione della valle, ―continua il giovane ufficiale ―il distaccamento Rommel sfila
sotto l’attendamento italiano.
Alcuni italiani catturati mi hanno comunicato poco prima che sulle pendici del Matajur si trova il secondo reggimento della brigata Salerno, un famosissimo reggimento italiano ripetutamente citato da Cadorna nell’ordine del giorno con parole di lode per le eccezionali prestazioni in presenza del nemico. Questo reggimento ci sparerà certamente addosso, hanno detto, per cui .dobbiamo stare in guardia» (p. 303).
Ma vediamo dalle parole stesse di Rommel come è andato l’ultimo assalto al Matajur.
«Senza sostare proseguo l’attacco contro la vetta del Matajur.
Questa dista ancora cinquecento metri ed è duecento metri più elevata di noi. Sulla cresta rocciosa si scorge benissimo con il binocolo il presidio nemico nelle sue posizioni.
A quanto pare, questi soldati non hanno alcuna intenzione di seguire l’esempio dei camerati dislocati sul pendio meridionale del Matajur che si sono arresi e si trovano già in marcia.
Il tenete Leuze appoggia con il fuoco di alcune mitragliatrici l’attacco che tentiamo di lanciare per la via più breve da sud.
Ma il fuoco nemico è molto molesto nel punto in cui ci troviamo, e le possibilità di avvicinamento sono talmente sfavorevoli a noi che preferisco piegare verso est sul pendio arcuato, senza essere visto dal presidio sulla vetta, per attaccare la posizione in vetta da Quota 1467.
Mentre stiamo effettuando questa manovra, piccoli gruppi di italiani con e senza armi continuano a dirigersi verso il posto dove un quarto d’ora prima il secondo reggimento della brigata Salerno ha deposto le armi.
Sul tagliente crinale orientale del Matajur, cinquecento metri a est della vetta, sorprendiamo un intera compagnia italiana.
Questa, ignara di quanto è accaduto alle sue spalle, è schierata, fronte a nord, sotto la cresta che da Quota 1467 raggiunge Quota 1643, ed è impegnata in uno scontro a fuoco con pattuglie della 12. divisione che dal monte della Colonna sta salendo verso il Matajur.
La nostra improvvisa comparsa con le armi puntate alle loro spalle sul pendio sovrastante costringe anche questi nemici ad arrendersi rapidamente, senza reagire.
Mentre il tenente Leuze sta battendo con il fuoco di varie mitragliatrici da sudest il presidio sulla cima, mi arrampico con altri elementi della mia piccola schiera in direzione ovest lungo la cresta, verso la vetta.
Altre mitragliatrici pesanti vengono da me appostate sulla cima di un roccione situato quattrocento metri a est della vetta per proteggere con il loro fuoco la squadra d’assalto che ho fatto entrare in, azione sul pendio meridionale.
Prima però che queste mitragliatrici aprano il fuoco, il presidio della vetta segnala di volersi arrendere.
Altri centoventi uomini aspettano pazientemente finché possiamo occuparci di loro nei pressi della semidiroccata casermetta confinaria del Matajur (Quota 1641).
Una pattugiia di ricognizione del 23. reggimento fanteria, composta da un sottufficiale e sei uomini e proveniente da nord, ci raggiunge.
Alle ore 11,40 del 26 ottobre 1917, tre razzi verdi e uno bianco annunciano che il massiccio del Matajur è caduto.
Per il mio distaccamento dispongo un’ora di sosta sulla vetta.
E una sosta ben meritata» (p. 307).
Disperata resistenza a Stupizza
Chiusa la parentesi della conquista del Colovrat e del Matajur da parte di Rommel, ci spostiamo verso la sinistra del fronte per vedere che cos'è successo tra il Matajur e lo Stol e in particolare nella valle del Natisone.
Già il 24 ottobre, dopo l’occupazione di Caporetto, i resti delle truppe italiane del IV. Corpo d’armata si sono schierate su successive linee e avevano tentato di opporsi agli imperiali che si erano diretti lungo la piana che da Caporetto porta a Staro Selo e da qui all’imbocco della valle del Natisone che in un senso porta a Cividale nell’altro a Nimis attraverso Borjana, Breginj e Platischis.
La difesa di Staro selo ebbe breve durata.
«Consumate le munizioni, minacciate di aggiramento, quelle poche truppe che resistevano erano state costrette a ritirarsi, e guadato il Natisone avevano dovuto ripiegare sulla retrostante altura di San Volario (recte Sant’Ilariio), la quale, nel punto ove il fiume stesso piega verso Cividale, isolata sorge all’incrocio delle valli, e a guisa di turrito castello ne protegge il varco» (Del Bianco, o.c. p. 138).
Ma la resistenza delle truppe italiane anche in questo punto strategico fu di breve durata.
Il reggimento Potenza fu investito violentemente dalla 12. divisione slesiana e percosso sul fianco da altri reparti nemici che gli si erano buttati addosso dalle pendici settentrionali del Matajur.
La strada verso Pulfero, che porta direttamente a Cividale, era rimasta così aperta e indifesa fino a Stupizza, ove stava accorrendo il 28. corpo d’armata.
Il generale Montuori aveva intanto ordinato il ripiegamento generale sulla linea Monte Maggiore - monte. Joannes - Mladesena - Purgessimo - Korada.
«Il 26 ottobre gli imperiali che si erano cacciati nella valle del Natisone avevano pertanto potuto raggiungere Strupizza, ove i fanti della Vicenza ― 53. divisione ―che formavano ormai la retroguardia, con fermo animo ne li avevano attesi, raccolti dietro barricate costruite all’ultimo momento a pochi passi dall’abitato.
La strada, davanti a quella esigua difesa, seminata di rottami, sconvolta da avvallamenti che lo scoppiar di numerosi proiettili aveva prodotto, appariva deserta di uomini, quando, dal retrostante paese, fu visto avanzare al trotto allungato dei cavalli un drappello del reggimento “Alessandria”.
Lo seguiva dappresso, in automobile, il comandante della 53. divisione...
Aperto un varco nella barricata, quelli dell’Alessandria si erano.lanciati avanti, chini sulle groppe degli animali, le sciabole protese verso il nemico.
L’urto avvenne dove la valle corre più angusta, alla cascina della vecchia frontiera.
Quivi si videro quei pochi uomini calare fulminei su di una pattuglia tedesca, sgominarla e proseguire al galoppo, finché da tutte le parti cominciarono a fulminare le mitragliatrici, e dagli anfratti delle montagne a scagliarsi contro di essi una tempesta di proiettili.
Pochissimi scamparono alla strage; alcuni, e tra essi il Gonzaga, ritornarono feriti alle linee di Stupizza; molti, quasi tutti, rimasero al di là della barricata...»
(Del Bianco, p. 145).
Gli austro tedeschi ebbero così via libera verso la valle del Natisone, Cividale, la pianura friulana e giù fino al Piave.
In base agli ordini ricevuti le truppe italiane in fuga incendiarono baracche e vettovaglie.
«Tutto ardeva intorno a noi.
Tutto era un braciere, tutto una fiamma.
Il cielo era scomparso.
Nella stretta valle dense colonne di fumo si alzavano dai paesi che ardevano a fiamme altissime...
Erano le fiamme di Stupizza che piegavano verso di noi, come a proteggerci, come a naconderci, come a salutare gli ultimi soldati della Patria...
Trovammo Loch già in fiamme.
La stazione, i treni fermi sui binari, i pali, le macchine tutto ardeva, i vagoni erano carichi di uniformi, di scarpe nuove, di armi e tutto ardeva.
Le ossature dei vagoni erano incandescenti.
I tetti delle case crollavano con schianti orrendi e crepitavano i proiettili sparsi...»
(Del Bianco, o.c. pl66).
Le Valli durante l'invasione
Ricordiamo ora uno dei pochi episodi di resistenza all’ avanzata degli imperiali che si concluse tragicamente nei pressi della chiesa di san Nicolò sopra Jainich.
A Castelmonte si erano andati concentrando reparti della brigata Ferrara, che si erano schierati lungo la linea Purgessimo Miscecco, e della brigata Milano, trasferitasi urgentemente da Prepotto. Qui lungo la strada che da Drenchia per Prapotnizza, San Volfango, Tribil, Jainich porta a Castelmonte si stavano dirigendo le truppe che erano state battute sul Kolovrat e lo Ježa.
«Forte nerbo di germanici si era dato ad inseguire queste disgraziatissime truppe, mentre quello che mosso si era da San Leonardo si disponeva a tagliar loro ogni possibilità di scampo, puntando verso il paese di Jainiz (recte Jainich) e verso la contigua chiesetta di san Nicolò, che sovra un poggio erboso, a fianco della strada, è posta a cavaliere delle due valli del Judrio e dell’Erbezzo.
La popolazione di Tribil, villaggio situato a breve cammino dalla chiesetta stessa, era corsa intanto a rifugiarsi in una naturale caverna a Polizza, e solamente alcuni tra i più animosi, fermatisi nell’abitato, avevano potuto osservare la penosa ritirata dei nostri, che affermavano di aver cessato di combattere perché rimasti senza munizioni, e avevano potuto assistere alla occupazione del borgo da tre germanici, i quali, piombati addosso ad uno,
che rimasto era per ultimo allo scopo di incendiare le
baracche, lo avevano tosto preso.
Lanciati razzi disegnalazione, il monte Hum, che sovrasta Tnbil, era subito popolato di germanici, i quali con grandissima sollecitudine calatisi dalle chine erbose, si erano precipitati nel paese, ed ora con maggior cautela stavano muovendo verso San Nicolò di Jainich dove si eranò raccolti numerosi italiani, che
avevano inconimciato a sparare furiosamente contro il nemico.
Gli abitanti di Jainich, cacciati fuori dalle proprie case dai tedeschi saliti da San Leonardo, si erano
dispersi nei boschi circostanti, ma molti che non
avevano fatto in tempo a fuggire erano stati costretti a
cercar riparo di fortuna, e strisciando carponi si erano
accovacciati dietro i muri della case stesse, attendendo con mortale angoscia che cessato fosse dall’alto il grandinar della mitraglia.
Gli imperiali, piantato che ebbero un telefono con San Leonardo, giovandosi dei rami degli alberi per stendere i fili lungo tutta la china, e piazzate che ebbero le mitragliatrici in mezzo al villaggio, incominciarono tosto a rispondere furiosamente alle armi italiane e a spostarsi in avanti verso il ciglio della montagna, ove corre la camionabile ed ove sorge la chiesa.
Di quando in quando tra il fragor della battaglia giungeva l’urlo delle fanterie che si scagliaano ad arma bianca, mentre più alta dominava la voce del cannone che sparava anche dal Corada, montagna al di là del Judrio.
Dopo qualche ora il frastuono cessò, e cominciarono allora tutto intorno a sentirsi gemiti ed invocazioni e penoso rontolar di morenti, e nel paese di Jainich, le cui case erano particolarmente provate, e in quello di Tribil, a giungere portati da soldati i primi feriti ai quali le donne premurosamente prodigavano soccorsi, somministrando loro quei pochi conforti che alpestri borgate potevano offrire.
Nel domani, dopo una notte tempestosa, le popolazioni dei villaggi vicini: Jainich, Tribil, Altana ed Oborza, rincuoratasi alquanto nel veder cessato il pericolo, si azzardarono ad uscire dai nascondigli e si davano a raccogliere tra gli anfratti della montagna quanti ancora vi giacevano nell’impossìbilità di potersi muovere, perché in condizioni più gravi, molti trasportandoli nella chiesina di San Nicolò, trasformata in ospedale, moltissimi in case private, ove per le ferite avute o per la mancanza di cure adatte non pochi piegarono di li a qualche. giorno al loro destino.
Il maggior numero dei caduti fu però raccolto all’incrocio delle strade Oborza-Tribil-Altana e nelle caverne ove il nemico li aveva sopresi, e tutti furono poi sepolti intorno alla chiesina, dove si consacrò in seguito un cimitero di guerra».
L'impatto della rotta sui nostri paesi
Lo sfondamento del fronte italiano ebbe un impatto devastante sulle valli del Natisone.
Possiamo immaginare l’apprensione e l’ansia della gente che nelle prime ore del 24 ottobre sentiva fin nei propri paesi il rimbombo delle cannonate e vedeva levarsi al di là del Matajur e del Kolovrat lampi sinistri e dense colonne di fumo.
Abbiamo già visto che la gente del comune di Drenchia e di Savogna, alle falde del Matajur, era stata spettatrice del veloce avanzare delle truppe tedesche, mentre nella valle del Natisone l’ultima disperata resistenza della cavalleria italiana era stata superata senza difficoltà; le frazioni alte dei comuni di Stregna e di San Leonardo, dopo la cruenta battaglia presso la chiesa di san Nicolò, erano già state occupati dagli imperiali.
La gente dei nostri paesi era disorientata, non sapeva se scappare o rimanere a difendere i pochi averi; non c’era un’autorità che desse indicazioni e costituisse un punto di riferimento; nei paesi erano rimasti solo i preti, quelli almeno che erano stati risparmiati dal confino perché accusati di austriacantismo.
«Nella vallata di San Leonardo le avanguardie imperiali, raggiunto che ebbero il paese di Clodig, ai piedi del Kolòvrat, e sottostante a Drenchia, muovevano frattanto, senza incontrare eccessiva resistenza verso Merso che occupavano alle ore 19 del 26 ottobre. Pochi momenti prima era stato fatto saltare il ponte sull’ Erbezzo, fiumiciattolo che in quei giorni, per l’ eccessiva piena, correva irruento e minaccioso, e mons. Petricig, parroco di San Leonardo, che era sceso a Scrutto per impartire
l’estrema assoluzione alla salma del Villani (il generale che comandava le truppe italiane sul Kolovrat e che a causa della disastrosa ritirata alla quale era stato costretto, si tolse la vita proprio a Scrutto, ndr), giunto appena in tempo a ripassarvi, potè vedere nostri soldati del genio farsi animosamente incontro ad una pattuglia germanica, che accorreva per prevenire il brillamento delle mine, e potè vederli contrastare ad arma bianca quel tanto che bastò per trattenere il nemico sulla opposta sponda, e per effettuare 1’ interruzione.
Questa permise alle nostre retroguardie di salire la montagna e di sistemarsi sulle trincee, già da parecchio scavate intorno a Castelmonte» (Del Bianco, o. c., pp. 147 - 148).
La gente del paese raccolto sotto il santuario della Madonna il 26 ottobre abbandonò il paese minacciato e si allontanò in massa.
Vi rimasero solo due vecchi, uno dei quali, Luigi Venica, fu ucciso giorni dopo da un ladro che per rubargli una mucca gli scagliò contro una bomba a mano.
Intanto dal Matajur e da Luico scendevano verso Savogna folte schiere di soldati imperiali che erano state precedute dai soldati italiani in fuga.
Gran parte della gente di Savogna, all’avvicinarsi delle truppe austro - tedesche, era fuggita a Brizza.
«L’Alberone, che attraversa Savogna, era gonfio di acqua quando fu fatto saltare il ponte che è nel mezzo del paese, interrompendo così le comunicazioni con Luico.
Gli imperiali calavano dai monti a colonne serrate.
Nostri mitraglieri, stando al di qua del paese, fecero resistenza e nella azione si ebbero una decina di morti.
Le avanguardie germaniche raggiunto 1’ Alberone costruirono una passerella con rami e frasche che tagliarono dalle piante vicine e che gettarono confusamente sul fiume, fermandole con grossi sassi. In meno di due ore poterono cosi passare a frotte, determinando la ulteriore ritirata dei nostri» (Del Bianco, o. c. p 149). -
A Brizza una granata uccise Antonia Cromaz di anni 35 e la suocera Maria Carlig che si erano chiuse in casa.
I loro cadaveri ― annota il Del Bianco ― rimasero insepolti per parecchi giorni, perché gli abitanti, ligi quanto mai alla legge, non osarono violare l’ordinanza che disponeva di non potersi rimuovere le salme senza permesso delle autorità.
Non si azzardarono perciò a toccare le due donne, ma le lasciarono così, come la morte le aveva lasciate, finché un tenente germanico recatosi sul posto non autorizzò la sepoltura.
Nel tentativo di passare l’Alberone tanti soldati imperiali morirono e le loro salme furono portate via dai compagni, mentre la gente del posto diede sepoltura ai soldati italiani.
«Queste cose ― conclude Del Bianco ― mi furono raccontate da certo Luigi Blasich di anni 70 rimasto sul luogo» (o. c. p. 149).
Il dramma dei profughi
Con l’arrivo dei primi soldati e civili in fuga dal fronte dell’Isonzo la confusione e lo smarrimento aumentarono nei paesi della Slavia ed anche tra i comandi militari, in particolare presso quello della Seconda Armata che da pochi giorni per essere più vicino alla linea di battaglia, si era trasferito nel palazzo Craighero a Cividale.
Il sindaco della città, de Pollis, e il commissario di pubblica sicurezza, de Biasi, si recarono al comando dell’Armata, dove veniva loro consigliato «di avvertire la popolazione di Cividale e dei comuni della Slavia del pericolo sopraggiunto, perché ognuno a suo talento avesse potuto regolarsi circa il rimanere o l’allontanarsi dalla propria dimora».
La diffusione di questo messaggio, che fu fatta non attraverso manifesti, perché i tipografi erano già scappati, ma da agenti municipali che passarono di casa in casa provocò ancora più panico e smarrimento.
«Dalle abitazioni cominciò allora ad uscir gente smarrita e terrorizzata, e donne si videro, e bambini e vecchi correr fuori, e le case vomitar fardelli e bauli, pacchi e ceste, e le più disparate cose che si buttavano dalle porte e dalle finestre, dovunque capitasse per far presto, mentre il panico dilagava ormai senza freno e di minuto in minuto aumentava, anche per l’affluenza sempre maggiore di profughi che giungevano dalle vallate del Natisone e di San Leonardo, i quali, con altissimi lamenti, piangevano il focolare abbandonato, la roba perduta, le famiglie disperse, e affannosamente raccontavano scene spaventose di violenze e di uccisioni.
Dava colore a questo fosco quadro il sinistro balenare degli incendi che ardevano di continuo in tutti i magazzini militari, così del reparto viveri come delle munizioni, e specialinente nella vicina borgata di San Guarzo, ove fiamme altissime lampeggiavano nel cielo, rischiarando cupamente la notte illune» (Del Bianco, o. c., pp. 133 -134).
«Più deprimente era ancora lo spettacolo nelle zone prossime alle linee, alla confluenza delle valli, ai crocicchi delle strade ed in particolar modo verso San Pietro al Natisone e verso San Leonardo, perché quivi, di momento in momento, attendevasi il nemico, e le milizie, che ultime si ritiravano in gran disordine, tutto incendiando e tutto devastando, si confondevano con quelle che accorrevano di rincalzo, e che per recarsi ai posti assegnati, costrette erano ad
aprirsi faticosamente il passo di tra la folla dei fuggiaschi e dei profughi.
Questi dalle loro case partiti, traendosi dietro quanto avevano potuto con carri, carrette, animali da soma e da cortile, erano i più lenti a muoversi, e maggior ingombro recavano nelle strade maggior pena a vedersi.
Né maggior scompiglio, né minor trambusto, regnavano poi nell’alta valle del Natisone, che nei pressi di San Pietro incrocia con quella di San Leonardo, perché ivi la strada volgendo incassata come in un corridoio, tra Matajur e Mia, non permetteva il facile deflusso della gente, e le unità che accorrevano di rincalzo venivano a scontrarsi con la moltitudine che scendeva verso Cividale, per cui tagliate in più punti perdevano la coesione e lo slancio, e con molta pena, e con molta fatica, riuscivano a proseguire...
Sull’ imbrunire del 25 ottobre a San Pietro al Natisone un drappello di cavalleria, venuto da Cividale, per aprirsi un passo era costretto a caricare la folla che percossa dalla ordinanza tosto si ricomponeva e, con la medesima insensibilità con cui si era lasciata calpestare, senza grida e senza proteste, si agglomerava di nuovo da tutte le parti siccome formicaio tramestato, affluiva in masse sempre maggiori» (p. 135).
E il conte Walframo di Spilimbergo con queste drammatiche pennellate traccia la scena dei profughi
e dei soldati in fuga che scendevano lungo le fangose strade delle valli del Natisone:
«Passavano e passavano i fuggiaschi.
Piegati tutti verso terra, le schiene curve, i volti nascosti nell’ombra delle spalle, coperti d’onta e di fango, passavano trascinando la loro miseria sulla strada, strisciando i piedi appesantiti, mugolando maledizioni e preghiere.
Avanzavano talvolta lentamente, a volte invece quasi correndo, come inseguiti alle calcagna, come assillati da un male, urtandosi, spingendosi, travolgendo ogni cosa, essi stessi travolti dalla follia...» (Del Bianco, o. c., p.l37).
La testimonianza di due vescovi
«Ieri mattina (25 ottobre 1917, ndr) volli ascendere sul monte Joanaz m. 1200, di fronte a Monte Rombon e Monte Nero che si affermava essere stati occupati dagli austro-ungarici: ma tutto silenzio, tutto quiete anche nella sottostante vallata.
Quand’ecco due soldati fuggiaschi mi si avvicinarono e mi pregano a ritirarmi assicurandomi che Caporetto era stato rioccupato coi paesi intorno alla sua destra dell’Isonzo, che gli austroungarici erano poco lontani dal mio posto di osservazione nel canale sottostante, arrivati fino a Creda e da Caporetto seguendo la vallate del Natisone avanzavano verso Cividale».
Con queste note indirizzate a papa Benedetto XV, il vescovo di Padova, mons. Luigi Pellizzo, originario di Ravne / Costapiana di Faedis descrive il suo primo inpatto con la tragedia che si stava consumando nella valle dell’Isonzo e che tra poco avrebbe travolto le valli del Natisone e tutta la Slavia Friulana (della corrispondenza tra il Vaticano e mons. [Pellizzo (Ravne 1860 - Faedis 1936) Dom ha pubblicato ampi stralci nel 1993].
«E i paesi ―domandò il vescovo ai due soldati italiani ― sgombrano?
Memmeno per sogno, mi dissero: quelle popolazioni li aspettano a braccia aperte: tanto è vero che in mezzo a tutto questo trambusto stanno tranquilli e tutti attendono ai consueti lavori senza la menoma preoccupazione.
E voi, soggiunsi, siete disertori?
No; siamo fuggiti per queste parti al “si salvi chi può”, come i nostri compagni che non caddero prigionieri sono fuggiti giù verso Cividale, abbandonando armi e munizioni.
Ridiscesi lesto: dopo due ore ero a Faedis; ma quale spettacolo nuovo ed impressionante. Tutto il paese sembrava un campo militare: carri, cavalli e truppa di ogni sorta che arriva: camions innumerevoli che da Cividale passavano attraverso il paese a corsa vertiginosa portando altre truppe e cannoni e munizioni per ascendere i monti e fare argine da altra parte alla invasione.
E questo passaggio vertiginoso durò tutto il giorno ieri, tutta la notte e continuava quando questa mattina improvviso partii per Padova...
Ieri sera mandai a Cividale a vedere come stavano le cose : vi regnava la massima confusione: e questa notte stessa ne fu, se non ordinato, suggerito dalle stesse autorità lo sgombro: per cui il treno era zeppo di profughi»
(I vescovi veneti e la S. Sede nella guerra 1915 ― 18, Roma 1991).
E da Faedis passiamo nella valle del Torre, dove la situazione si rende improvvisamente critica per il sopraggiungere di soldati italiani in fuga e di austriaci al loro inseguimento.
«Tanto lontana era la realtà delle cose che, in quel mattino del 26 ottobre, a Pradielis vi era gran festa per la visita pastorale dell’arcivscovo di Udine, Anastasio Rossi, e la gente attrattavi dallo scampanio che riempiva di echi giocondi la valle, accorreva a frotte e si accalcava in chiesa, ignara che a breve distanza fossero ormai giunte le avanguardie nemiche, nelle quali, per caso, si imbatteva invece il giovane Ferdinando Marchiol».
Ecco il suo racconto:
«Verso le 9 del 26 ottobre, dopo aver invano atteso che mio padre rincasasse, preoccupato delle sinistre voci chc la sera precedente avevo inteso a Carnizza dove lavoravo in qualità di boscaiolo, mi avviai verso Pian di Mea per chiedere notizie agli abitanti di quei casolari.
Dopo una mezz’ora di strada, fuori del paese, presso Tanavarch vidi improvvisamente sorgere da un avvallamento due soldati che mi spianarono contro il fucile.
Rimasi sorpreso ed inebetito dalla apparizione, e fermatomi indeciso sul da farsi, non riuscivo ad articolare parola.
I due, sempre tenendo verso di me puntate l’arma, mi si fecero vicini ed uno mi interrogò in tedesco.
Risposi in sloveno, al che subito l’altro cominciò a parlarmi nella medesima lingua, e mi dissero che erano soldati austriaci e che perciò dovevo ritenermi loro prigioniero.
Nessuno mi avrebbe fatto del male, purché me ne fossi stato quieto e non avessi gridato.
E mentre uno di essi proseguiva cautamente verso Musi, l’altro m'invitò a sedere a terra, e mi stette vicino discorrendo in sloveno.
Quello che si era allontanato rimase assente circa un’ora, poi essendo tornato tutti e tre ci incaminammo verso Pian di Mea». (Del Bianco, o. c., pp. 208 -209).
Ma ecco come lo stesso mons. Anastasio Rossi racconta la sua avventura in val Torre.
«Il dì appresso, 25, nel risalire la valle del Torre sopra Tarcento, per portarmi a Pradielis, a Lusevera, verso Musi, Uccea, Saga, vidi gruppi numerosi di operai addetti alle trincee e di soldati disarmati che fuggivano.
Il venerdì, 26, giunse la notizia che Saga era già occupata dagli austriaci.
Nella chiesa di Pradielis, poco prima che amrninistrassi la santa cresima, una voce gridò che gli austriaci erano a Musi, suscitando un panico indescrivibile, che io a stento potei calmare.
Fatta la visita, come Dio volle, la santa cresima anche nella curazia di Cesariis, ritornai a Tarcento, trovando sulla via un operaio ferito da proiettili austriaci e feci passo a numerosi camions carichi di alpini che giungevano dal Trentino per sbarrare la via al nemico.
Era troppo tardi...
Al mattino del sabato, 27, dovea portarmi per la visita a Sammardenchia, ma nella notte giunsero a Tarcento esterrefatti gli abitanti di Monteaperta, Platischis, dove erasi ritirato il comando, fuggiti perché gli austriaci, coi bulgari e coi turchi già occupano le creste delle prealpi friulane. Anche il munitissimo baluardo dello Stol, aggirato, aveva dovuto cedere, e la triplice potente linea di difesa, preparata con immenso dispendio di fatica, era stata superata».
La penosa ricerca di morti e feriti
Dopo aver raccontato a grandi linee lo sfondamento del fronte dell’Isonzo e le sue conseguenze sulle valli del Natisone, riportiamo alcuni fatti di cronaca spicciola che hanno avuto come protagoniste, nel bene e nel male, persone dei nostri paesi.
Ritorniamo, allora, alla chiesa di san Nicolò e a Jainich in Comune di San Leonardo, che furono teatro, come abbiamo già visto, di una disperata resistenza contro l’avanzamento delle truppe imperiali.
«Nell’indomani ― scrive Giuseppe Del Bianco nella sua vasta opera sulla prima guerra mondiale in Friuli ― dopo una notte tempestosa, le popolazioni dei villaggi vicini: Jainiz (recte Jainich), Tribil, Altana ed Oborza, rincuoratasi alquanto nel veder cessato il pericolo, si azzardavano ad uscire dai nascondigli e si davano a raccogliere tra gli anfratti della montagna quanti ancora vi giacevano nella impossibilità di potersi muovere, perché in condizioni più gravi, molti trasportandoli nella chiesina di San Nicolò, trasformata in ospedale, moltissimi in case private, ove per le ferite avute o per la mancanza di cure adatte non pochi piegarono di lì a qualche giorno il loro destino» (o. c.,p. 169).
Nella casa di certo Giuseppe Podrecca di Jainich, morirono sei soldati e due nella casa Paussa ad Oborza.
Questi ultimi furono assistiti da certa Maria Lesizza la quale portò loro sempre finché ebbero vita latte e uova, e sacrificò perfino le poche galline che aveva, nonostante le minacce che in tono aspro le venivano fatte dal burbanzoso comandante la gendarmeria locale il quale non riusciva a capacitarsi come se ne dovessero privare i viventi che ne avevano tanto bisogno, per darle a coloro che erano destinati a soccombere.
Si videro in quei giorni, che seguirono immediatamente il combattimento, le donne girare per i boschi con pentole e recipienti ricolmi di brodo e di latte, e con bende ricavate da lenzuola e dalle proprie camicie e medicare e soccorrere così i feriti dove si trovavàano, finché i pochi uomini rimasti in paese avessero avuto agio di pensare al trasporto di quegli infelici.
Il soldato Mano Cassini, scrive Del Bianco, fu assistito da una giovinetta che gli rimase a fianco, sino a quando egli esalò la vita, ed egli poco prima di morire la volle baciare, perché ― ebbe a dire ― non aveva altro mezzo per esprimere la commozione e l’angoscia del suo animo se non raffigurando quella
dolce creatura alla mamma lontana, la quale poi a guerra finita raccolse quel bacio con lo stesso tenerissimo affetto con cui era stato dato dal morente.
Il maggior numero dei caduti della battaglia di San Nicolò fu raccolto all’incrocio delle strade Oborza - Tribil - Altana e nelle caverne ove gli austro
- germanici li avevano sorpresi. In un solo ricovero vennero trovate venti salme dei nostri e parecchi feriti.
Questi raccontarono che mentre aspettavano il nemi
co dalla parte di Oborza, si presentò invece dalla parte di San Leonardo, su cui si apriva il ricovero.
Piazzata una mitragliatrice proprio davanti all’apertura, i tedeschi cominciarono a sparare falciando tutti nell’interno che non avevano modo di ripararsi.
In questa caverna venne trovato dopo quattro giorni un soldato rimasto ferito ad una gamba.
Era disteso su di una tavola e nelle prime ricerche non era stato rintracciato, perché privo di sensi non aveva potuto far notare la sua presenza.
Un caso simile avvenne otto giorni dopo la battaglia.
Un ragazzo del paese di Jainich, che andava alla ricerca delle salme nelle varie caverne, capitò in una che era sfuggita alle precedenti ricerche e vi trovò un vero carnaio dal quale uscivano gemiti, per cui il ragazzo, preso da folle terrore, scappò in paese a chiedere aiuto.
Sul posto si recarono uomini e donne che dopo aver rimosso i cadaveri ― ve n’erano una decina ormai in via di decomposizione ― trovarono un soldato che era ancora in vita.
Fu trasportato con ogni cura a Jainich dove fu rianimato e curato.
Raccontò che le mitragliatrici tedesche avevano ucciso tutti i difensori della caverna e che egli, ferito, era caduto tra i morti e creduto per morto.
Quando rinvenne cercò di muoversi e di fuggire dalla orribile tomba in cui si trovava, ma le ferite lo immobilizzavano e nessuno rispondeva alle sue disperate invocazioni per cui stava attendendo rassegnato la morte, quando vide entrare il giovane capitato lì per caso.
Questi a causa dello spavento provato si ammalò poi di choc nervoso e dovette essere internato in una casa di cura.
Altro caso pietoso avvenne due o tre giorni dopo: la giovane Virginia Cicigoi di anni 18 stava girando con la madre in cerca di feriti, quando urtò contro un fucile abbandonato a terra. L’arma esplose e la pallottola la colpì alla gola uccidendola
(cfr. Del Bianco, o. c., p; 171).
Profanato il santuario di Castelmonte
Nel corso della disfatta di Caporetto anche il santuario della Madonna di Castelmonte subì grandi danni e fu profanato.
Racconta Del Bianco che la popolazione di Jainich e Altana, dopo aver assolto il compito umanitario di soccorrere i feriti e dare sepoltura ai morti, processionalmente «si recava nel vicino santuario di Càstelmonte per celebrare solenni grazie all’Altissimo che avevala scampata da così grande jattura e per impetrare ausilio, nella triste condizione in cui trovavasi alla merce del nemico. Ma ahimè! Anche il santuario, luogo quanto mai amato e venerato, era stato ridotto a malpartito, perché alcune case d’intorno erano state colpite dal cannone e distrutte dallo fiamme, e profanata la chiesa e profanato il tabernacolo, per cui non si poté celebrare che nella sacrestia» (e.c.,p. 171).
Anche ilparroco di San Leonardo don Giuseppe Gorenszach dopo il coinbattimento di Jainich, e
precisamente il 2 novembre, si recò a Castelmonte dove trovò le case vuote e trasformate in veri letamai; due di proprietà del Capitolo di Cividale, una di prorpietà di certo Giovanni Spadalo erano state completamente distrutte
«Trovò la chiesa tutta in disordine e così in sacrestia tutti gli apparamenti e la biancheria fuori posto, i due tarbernacoli fracassati e sull’altare maggiore la pissicle vuota e due o tre particole per terra.
Le raccoglie nella pisside e la nasconde in sacrestia per la consumazione di domani. Vi venne il curato di Cialla (don Natale Moncaro, ndr.).
Il convento ed il resto delle case tutte saccheggiate»
(Libro storico della parrocchia di San Leonardo).
Il gesto sacrilego nel santuario di Castelmonte produsse una grande impressione tra la gente delle valli del Natisone e attorno ad esso sorse anche la credenza che la Madonna punì il soldato tedesco che compì la profanazione.
«Era questi un gendarme; certo Scheiner, appartenente alla cosidetta squadra volante delle requisizion la quale con maggior zelo rapinava la povera gente ed era la più capace a saper scovare dove si nascondeva la preda.
Lo Scheiner, luterano di fede, soleva dire in tono di- scherno che “la Madonna aveva fatto caput” e che nessun potere aveva avuto di preservare gli italiani dalla sconfitta, né di salvare gli abitanti del Cividalese dalle angherie e dalle requisizioni.
Nel 1918, nel giorno dell’ Assunzione, mentre grandi solennità religiose si celebravano nel restaurato Santuario, lo Scheiner stesso stava scendendo di gran corsa in bicicletta da Azzida diretto a Scrutto, quando infilato male il ponte sull’Alberone, andava a sbattere contro il muro del parapetto, facendo tutto un volo nel sottostante ghiaieto del fiume ove venne poi
raccolto cadavere.
I valligiani affermarono e affermano tutt’ora che la morte disgraziata dello Scheiner fu voluta dalla Madonna per punire 1’ oltraggioso delle sue malefatte» (o. c., p. 173).
Per rimanere in tema di cronaca dei fatti successi nel corso della ritirata di Caporetto ci spostiamo a Tribil Superiore.
La gente raccontava che ritiratisi gli ultimi reparti italiani, «un bersagliere fece ritorno tutto solo in paese, e, a quanti lo esortavano ad allontanarsi subito perché prossima era ormai l’occupazione, mostrando un tascapane carico di bombe che teneva a tracolla, rispondeva beffardo:
“Vedete queste uova? Son tutte per loro!”
Si nascose e quando il nemico fattosi avanti si trovava a combattere a Jainiz (recte Jainich, ndr.), egli lo aggredì alle spalle, ma pagò con la vita la brama di vendetta che lo aveva spinto a gesto così disperato.
Né fu il solo episodio accaduto a Tribil, atto a dimostrare l’altissimo spirito che animava le nostre truppe pur così provate.
Due giorni dopo terminato il combattimento di Jainiz un gruppo di prigionieri venne radunato in paese.
Tra questi eravi un fante, il quale, ribellatosi ai soldati di scorta cominciò a gridare, come invasato, che mai si sarebbe arlattato a vivere sotto ia, e che conveniva piuttosto morire che gemere in prigionia sotto aguzzini di tal fatta.
Fu percosso e poiché le busse non bastavano a quietarlo, gli fu puntata alla fronte una
rivoltella minacciando di finirlo ove non avesse desistito dalle grida.
Alcune donne richiamate dai clamori si interposero chiedendo pietà ed allora il disgraziato che continuava a dimenarsi come un ossesso ed a gridare con quanta voce aveva in corpo, venne allontanato e fuori del paese venne freddato a fucilate.
Il cadavere, abbandonato a ridosso di un cespuglio; fu raccolto dagli stessi abitanti di Tribil ed ebbe onorata sepoltura nel camposanto vicino alla chnesa»
Ibid.,p. 173).
Quella donna di Zamir
Le gesta militari che su uno e sull’altro fronte hanno accompagnato la disfatta di Caporetto non sono le uniche a renderla storicamente memorabile e umanamente significativa.
Nel corso del nostre racconto abbiamo visti tanti piccoli fatti di generosità e di eroismo sia il soldati che di gente dei nostri paesi.
Anche questi rendono e dovrebbero ancora di più rendere memorabile quel fatto storico.
Tante volte si mette in secondo piano il lato umano e la paura dei giovani soldati per esaltare il loro eroismo, dimenticando che spesso dietro un gesto di coraggio si cela la forza della disperazione.
I sentimenti, i pensieri, le riflessioni, ma anche le debolezze dei soldati sono emersi molto raramente, eppure quale valore ed importanzat essi hanno avuto in questa come in alttre azioni di guerra per le singole persone.
Dal diario del medico Antonio Pozzo di Udine, che partecipò al combattimento nei pressi della chiesa di San Nicolà di Jainich e venne fatto prigioniero dalle truppe tedesche, prendiamo alcune riflessioni e un episodio significativo.
La data è quella del 27 ottobre 1917.
«È sera. - Comincia a piovere.
I nostri hanno finito.
Isolati, accerchiati, hanno dovuto arrendersi.
Capitano a frotte, avviliti,muti; sanno che un triste destino li attende e pensano con dolore all’inutilità di una giornata di lotta combattuta generosamente.
Più tardi sapranno che il loro eroismo ha contribuito ad arginare la calata degli Unni.
Qualche cosa di enorme, di irreparabile è avvenuto, dunque.
Ho l’impressione che la vita passata mi si sia chiusa alle spalle ed io mi trovi, naufrago, in un mare sconosciuto sui cui flutti brumastri non scorgo alcun chiarore di salvezza.
Libertà, patria, famiglia, nomi che mi ronzano alle orecchie che mi rappresentano simboli dimenticati, scomparsi in un lontano remotissimo.
Ma quello che più mi colpisce, è l’impressione del vuoto, del nero, di qualche cosa di ineluttabile superiore alle mie forze che mi attanaglia, mi stringe la gola, con un singhiozzo: sento di essere divenuto un automa, in balia di un destino che non posso immaginare.
La pioggia cade inesorabile; nella notte senza speranza fuochi di bivacchi, fuochi di incendi, e boati enormi: soltanto le riservette di munizioni, del Corada, scuotendo la terra con formidabili esplosioni, lanciando nel cielo chiarori rossastri che illuminano sinistramente i volti dei nostri nemici.
Arriviamo a Zamir, quattro case che si indovinano a traverso la pioggia torrenziale.
Il mio guardiano acconsente che io trovi posto, con i miei uomini e con il cappellano del Reggimento, don Reggiani.
Povero Reggiani! Gli dicevamo noi che non sarebbe tornato a dirigere la Cassa rurale di Crevalcore! ―in una casupola.
Entriamo.
Una donna del paese, con due bambini che piangono per la paura, si acquieta quando sente che siamo italiani e che le domandiamo alloggio.
Data la parola d’onore che non sarebbero stati fatti tentativi di fuga, veniamo rinchiusi nella cucina.
Fu acceso un fuoco, ci asciugammo un po’, mangiammo delle castagne lesse (moncis) che quella povera donna ci preparò; e ci disponemmo a passare la notte attorno al fuoco, mentre la bora urlava per il camino e la pioggia dilùuviava implacabile.
A un certo momento, quando il sonno stava per aver ragione delle nostre sofferenze fisiche e morali, la donna mi si getta ai piedi, piangendo, e mi supplica di indossare i panni da contadino del marito per fuggire, con i bambini, approfittando delle tenebre e del pessimo tempo.
Questa infelice, sconvolta, grida che non vuol rimanere con i tedeschi, che preferisce la morte al rivederli.
Devo faticar molto a convincerla che anche per i suoi bambini, miglior cosa rimanere; che i nostri sono già pronti alla riscossa, che in pochi giorni le cose muteranno, che è una pazzia affrontare una morte sicura (tutt’intorno alla casa le sentinelle battono il passo per tenersi sveglie) quando in poco tempo la situazione può cambiare; la induco a salire nella sua camera da letto, a portarsi i bambini e ad attendere gli eventi» -
(G. Del Bianco, o. c., pii. 176- 177).
---++Il povero parroco di Resia
Prima di avviarci alla conclusione di questo lungo racconto sui drammatici giorni della disfatta di Caporetto e delle sue conseguenze nella Slavia Friulana, facciamo una puntata anche in Vai Resia dove l’impatto con la rapida ed imprevista invasione dell’esercito austroungarico ha prodotto sconcerto, sorpresa e danni come in altre zone del retrovia anche se la valle non si è trovata sulla traiettoria principale della rovinosa fuga dell’esercito italiano e dell’inseguimento degli invasori.
Questi avevano colto di sopresa i presìdi di artiglieria italiani che avevano visto arrivare da Žaga ad Uccea alcune truppe, ma che a causa della nebbia, le avevano scambiate con milizie, italiane, per cui senza sparare e senza rendersi conto di quanto era avvenuto si trovarono improvvisamente circondati dal nemico.
Soltanto pochi uomini di questi reparti, guidati da un boscaiolo di Resia, erano riusciti attraverso alcuni sentieri montani a raggiungere Resiutta, dove confortati dal parroco, don Rumiz, avevano raccontato come gli imperiali, dopo aver raggiunto Chila, in segno di disprezzo avevano inalberato un bastone su cui era infisso un cartello che dalla parte del versante austriaco recava la scritta «Sacro Romano Impero», mentre dalla parte del versante italiano si leggeva «Nazione di traditori».
Ma per sapere qual è stato l’impatto dell’arrivo delle truppe austroungariche in Val Resia, ancora una volta chiediamo aiuto a Giuseppe del Bianco.
«In mezzo a tanto scompiglio gli infelici abitanti, persuasi che i paesi sarebbero stati in breve ora occupati, o che sarebbero stati teatro di fierissimi contrasti, abbandonavano le case e si avviavano in lunghe colonne verso Resiutta, per cui vedevi sulla strada che percorre la valle in tutta la sua lunghezza, un affannarsi di gente raminga che spingeva avanti con grida e percosse gli armenti o penosamente si tirava dietro su sgangherati carretti quel poco che aveva potuto racimolare in gran fretta, e reparti di truppe vedevi rimontare la processione di quegli infelicissimi, reparti che affannosamente accorrevano in linea, mentre ai margini della strada, spossati dalle fatiche e dagli stenti, si accasciavano i fuggiaschi di Plezzo, frammisti a civili, a donne, a bambini, a vecchi, in una babelica confusione di creature che riempiva l’angusta valle di gemiti e di pianti».
Dopo aver abbandonato il Guarda e il Chila l’esercito austroungarico aveva raggiunto, quasi senza colpo ferire, Stolvizza, paese che sta alla sommità della valle, e muoveva verso Prato / Ravanca, il capoluogo di Resia, nelle vicinanze del quale si erano schierate le truppe italiane che avevano posto il comando nell’osteria «Al .cacciatore».
«Il curato, don Giovanni Sinicco ― scrive il Del Bianco ― che proprio in quel mattino del 26 ottobre, prima dell’occupazione di Stolvizza, era disceso a Prato per sepellirvi un morto, non aveva veduto durante il percorso anima viva, perché gli italiani avevano oramai abbandonato questo tratto superiore della valle, e gli imperiali non vi erano ancora discesi dal crinale dei monti.
A Prato erano però rimaste alcune persone e tra queste il parroco, don Francesco Bevilacqua, che viveva in grandissimo orgasmo, ed il sindaco Pietro Clemente, con il quale il Sinicco, prima di prendere la via del ritorno, si era accordato sul da farsi in così funestissimi frangenti.
Lasciato il capoluogo e fatto un breve cammino verso Stolvizza, il curato si imbatteva nelle prime pattuglie tedesche che nel frattempo, occupato il paese, stavano discendendo lungo la valle e con esse si univa pensando che la sua presenza avrebbe potuto confortare le angustie del suo superiore.
Il gruppo di uomini, al quale egli erasi accompagnato, proseguì senza intoppo per alcune centinaia di metri, ma ad una svolta della strada fu preso a fucilate che provenivano di dietro un greppo, dove erasi appostato uno di Oseacco il quale, soldato alpino, trovandosi in quel torno di tempo a casa, in licenza di convalescenza, pieno di ostinato furore contro il nemico, fatti partire i familiari, ed armatosi alla meglio, con animo sdegnoso erasi fermato e per nulla sgomento di trovarsi solo, da solo combatteva.
Ma venutegli meno le munizioni, anche il suo fucile si tacque, e l’avversario rispettando ed amnurando il pertinace suo valore non gli recò offesa, e senza attardarsi più oltre, mosse a Prato di Resia, che occupò alle ore 14 di quel medesimo giorno 26 ottobre.
Volle il caso che proprio nel momento in cui l’orologio della torre campanaria batteva i rintocchi, una granata italiana piombasse sopra una pattuglia avversaria, nascostasi dietro il cimitero, e che poi ribattendo l’orologio stesso, come il suo meccanismo comportava, una seconda scoppiasse sul limitare del paese, verso Gniva, esplodendo tra un altro gruppo di imperiali, molti dei quali ferì e alcuni ne uccise, per cui sospettandosi intelligenze segrete con il comando italiano, il parroco don Francesco Bevilacqua fu aspramente maltrattato e quale ostaggio rinchiuso in una camera, dove, con continue minacce di morte, fu lasciato due giorni senza cibo, volendo con ciò indurlo a palesare quella connivenza che nessuno aveva, e men che meno il poveraccio timido e pauroso per natura sua.
E a tanto si giunse da parte della soldataglia che attraverso il pavimento della stanza sottostante, più volte gli si tirò contro, dandogli la caccia alla cieca, mentre il Bevilacqua qua e là saltando sempre riuscì a schivare i colpi.
Ma così atroce fu il martirio che il disgraziato rimase poi per lungo tempo tra la vita e la morte e, risanatosi di corpo, infermò di mente».
Il Del Bianco afferma che questi fatti gli furono raccontati da don Emilio Causero, allora parroco di Oseacco, e gli furono confermati dal parroco di Stolvizza, don Giovanni Sinicco, il quale ritornato alla propria residenza, in quella sera del 26 ottobre, fu fermato e tradotto davanti ad un ufficiale superiore, che meravigliatosi di non trovar resistenza, voleva sapere dove si fossero cacciati gli italiani e che cosa preparassero ai suoi danni.
Un omaggio alla nostra gente
Con questa breve puntata terminiamo il lungò racconto sui fatti successi nella Slavia Friulana a partire da quel piovoso 24 ottobre 1917, quando l’esercito austroungarico con un massiccio attacco sfondò il fronte dell’Isonzo e in pochi giorni arrivò sulla riva sinistra del Piave.
Come abbiamo visto, la valle del Judrio, le valli del Natisone e del Torre e Resia in quei giorni balzarono agli «onori» della cronaca e della storia, ma non quel tanto perché questa memoria diventasse duratura e occasione della dovuta attenzione da parte delle autorità e di rinascita socioeconomica e culturale.
Mentre procedevamo nella nostra ricerca, di puntata in puntata scoprivamo fatti nuovi ed inediti, personaggi che meritano almeno un ricordo, situazioni drammatiche o gesti di solidarietà che non sono entrati nemmeno nella cronaca.
Abbiamo riscontrato un grande interesse per questo racconto e tanti avrebbero voluto che venissero citati fatti e persone, la cui memoria è arrivata a noi attraverso il racconto dei vecchi che furono testimoni della rotta di Caporetto.
Ad Altana, in Comune di San Leonardo, che si trovava appena dietro la seconda linea difensiva italiana, si racconta ancora della permanenza in paese del giovane Aimone di Savoia che faceva parte del servizio di perlustrazione e, in aerostato sorvolava la valle del Judrio per controllare le postazioni e le mosse del nemico.
Aimone soggiornava in una camera della famiglia Cicigoi - Šuoštarjovi, mentre alla mensa ufficiali provvedeva la nota trattoria di Pierina Chiabai.
Aimone con i suoi conimilitoni riuscì a mettersi in fuga prima dell’arrivo dell’esercito austroungarico.
Ad Altana raccontano ancora della furiosa battaglia che si è svolta nei pressi della chiesa di san Nicolò e della ricerca dei caduti e dei feriti da parte della gente del posto.
I morti vennero sepolti attorno alla chiesa: gli italiani lungo il muro di cinta, i tedeschi lungo quello della chiesa. La gente ricorda ancora il triste pellegrinaggio dei genitori e dei parenti dei caduti, come quello dei genitori del giovane ufficiale Mario Cassini di Roma, che spesso salivano a San Nicolò per pregare e deporre un fiore sulla tomba.
La salma del Cassini, come quelle dei suoi commilitoni, rimase nel piccolo cimitero fino alla seconda metà degli Anni Trenta, quando a Udine venne costruito il Tempio ossario, nel quale fu traslata assieme ad altre migliaia di salme di giovani italiani (il Tempio fu inaugurato nel 1940).
E nel ricordo di queste giovani vite spezzate dalla follia della guerra, della nostra gente che ha sofferto in quel terribile primo conflitto mondiale terminiamo questo nostro racconto.
G.B.
da DOM 98
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