Storia di un altro mondo
Di Ferruccio Clavora
Le sei. La sveglia suona.
Che sonno. Ma mi devo alzare.
Mi vesto, mi lavo e scendo in cucina.
La borsa è già pronta. Devo solo infilarvi la borraccia del caffè.
Fuori fa buio e freddo.
Un freddo che ti dà una voglia matta di tornare a dormire. Ma non c’è niente da fare, devo an
dare.
Vado.
Una grande sala, con molti armadi bene allineati. E’ lo spogliatoio. Dalla borsa tiro fuori la camicia, la giacca, i pantaloni, gli scarponi.
Piano piano mi vesto. Intorno a me altri si vestono con la stessa lentezza, quasi con pigrizia. Sembra che stiano gustando questi momenti, che questa lentezza abbia un significato profondo: ripetere un rito, forse per l’ultima volta.
Di tanto in tanto una voce rauca si alza: “Tonca, si trudan donas. Kas si dielu naco? ”. L’altro risponde con un brontolio: “Bies tu moda …”.
Spesso si sente tossire. Una tosse che fa paura.
Fuori fa ancora buio e freddo.
Con un gruppetto mi avvicino ad uno stanzone di legno. Là mi danno una lampada da mettere sul casco ed una scatoletta rotonda; pare che sia una maschera antigas.
Di nuovo nel buio e nel freddo. Saliamo su per una scaletta di ferro. Ci ritroviamo su una piattaforma dove aspettano già parecchi altri. Alcuni giocano tra di loro, spingendosi.
Altri, i più, sono appoggiati al muro, guardando in terra, in silenzio.
Ecco, tocca a me.
Entro in una gabbia di ferro, stretta. C’è posto per sei uomini. L’ultimo entrato chiude una porta interna. Fuori, qualcuno sbatte con forza uno portello che ci isola dal resto del mondo.
Comincia la discesa, prima lenta e poi sempre più veloce.
Ad un tratto, una luce che scorgiamo appena.
Qualcuno mormora: settecento. Scendiamo ancora, sempre più veloci.
Il buio si fa sempre più nero. Il mio corpo si appesantisce sempre di più. La corrente d’aria fredda si trasforma prima in un alito tiepido poi, man mano che scendiamo, diventa un soffio d’aria calda. Sento di entrare nel corpo della terra, nell’intimità del pianeta.
In qualche secondo la velocità diminuisce fortemente.
La gabbia buia e fredda si ferma. Siamo a quota mille. Usciamo da quella che sembrava una cella e mi pare di ritornare alla vita.
Ritrovo la luce. Una luce pallida ma che riscalda poiché testimonia una presenza umana. Una galleria si apre di fronte a me. Ne vedo i primi metri. Al di là, un muro nero. So che dietro questo muro di buio si lavora.
Accendiamo la nostra lampada e ci avviamo verso la galleria. Camminiamo in silenzio, lentamente.
Di nuovo mi colpisce questa lentezza nel muoversi, nel reagire. Viviamo in un altro mondo, veramente. Qua il tempo ha un’altra dimensione.
Arriviamo in fondo alla galleria centrale. Prendiamo a destra, per qualche decina di metri possiamo ancora camminare normalmente, poi ad un tratto bisogna piegarsi in due. Qualche metro ancora, e di nuovo possiamo rialzarci.
Un altro incrocio, con tanta luce.
Luciano Stramare che mi precede si ferma e, voltandosi, mi dice:
“Se hai fame o sete, Ferruccio, è il momento”.
Ci sediamo per terra, Tiriamo fuori il bidone ed i panini, qui dicono le “tartines”. Mangio e bevo, poco. Devo sforzarmi per mandare giù qualcosa, tutto sa di carbone.
Masticando lentamente il pane al quale si mescola la polvere nera che ricopre le mie mani, penso a mio padre che per anni ha fatto questa vita, che per anni ha respirato e mangiato carbone.
L’ ha fatto perché in Italia non c’era lavoro per lui, e gli avevano detto che in Belgio si guadagnava bene.
L’ ha fatto perché nessuno investiva nelle sue Valli.
L’ ha fatto perché l’Italia aveva bisogno di carbone ed il Belgio di mano d’opera.
Prendo la borraccia del caffè pensando che almeno questo non avrà il gusto della pietra nera. Invece no, intorno al collo del bidone si è accumulata tanta di quella polvere che in bocca mi sembra di avere fango.
Ci rialziamo.
Luciano mi suggerisce di lasciare lì la borsa e di togliermi la giacca. “Sarà più facile”, dice. Non capisco ancora cosa significhi questo “più facile”. Riprendiamo il nostro cammino, la galleria si restringe, diventa meno alta, a tratti devo piegarmi in due per non sbattere la testa.
Ad un certo punto comincia una discesa che sembra un dirupo; dobbiamo stare attenti a non scivolare. La terra sotto i nostri piedi è malferma. In fondo scorgiamo altre luci.
In prossimità di queste luci, mi accorgo che sono le lampade portate dai minatori. Fa un caldo terribile. Sudo. Sono bagnato come dopo una doccia.
Luciano si gira e mi invita a togliermi la camicia. “Presto avrai ancora più caldo”. Mi ritrovo così a torso nudo. Non capisco bene cosa si possa fare ora poiché siamo giunti in fondo alla galleria.
Sento un rumore. Mi volto e dalla terra vedo uscire una forma umana.
Non credo ai miei occhi, guardo meglio e là nell’angolo vedo un’apertura di poco più di mezzo metro di altezza e altrettanto di larghezza.
Luciano si inginocchia e entra nel buco.
Lo seguo, non senza timore.
Andiamo avanti così per qualche metro, poi dobbiamo sdraiarci e tirare avanti aiutandoci con le ginocchia ed i gomiti. Il tempo mi sembra lungo, di tanto in tanto la mia lampada illumina la suola dello scarpone di colui che mi precede.
Mi sembra di soffocare, apro la bocca ed aspiro con forza ma non riesco a riempire i polmoni di aria. Non ne posso più ma devo continuare, dietro di me non c’è che il buio e il nulla.
Questa progressione dura un’eternità.
Quando guardo in su, a pochi centimetri dal mio viso, vedo la parete superiore della taglia e non posso impedirmi di pensare che sopra di me vi sono milleduecento metri di terra e di roccia.
Un senso di angoscia m’invade. Devo lottare per impedire che il panico si impadronisca di me.
Dopo tutto questa è la vita quotidiana del minatore.
Cosa credevo di venire a fare in miniera? Il turista?
Oppure il giovane che per darsi arie scende nel pozzo “per fare un’esperienza”? Bella esperienza, questa!
Mi vergogno di aver pensato di fare una “gita” in questi luoghi dove giorno dopo giorno, anno dopo anno, uomini vivono e lavorano in condizioni disumane.
Qui mi viene la voglia di mandare al diavolo tutti quelli che pretendono che non esiste lo sfruttamento dell’uomo, quelli che pensano che una nuova società può essere costruita su queste basi.
Quando si vede e si prova ciò che ho visto e sentito, non si possono più accettare certe cose. Nel fondo del mio cuore si sta spezzando qualcosa. Non capisco ancora bene cosa mi stia succedendo, ma so che quando uscirò da questo buco sarò diverso da quando vi sono entrato.
Improvvisamente l’immagine di mio padre mi ritorna davanti. Vedo il suo viso pallido e magro, i suoi occhi lucenti e neri, risento il suo respiro pesante, la sua tosse rauca.
Penso a tutti i minatori che, per la sete di denaro di alcuni - oggi si direbbe: per fare crescere il PIL - hanno dovuto scendere in queste fosse, dove l’agonia è lunga, quando non colpisce a freddo la morte.
Penso a tutti coloro che vi hanno lasciato la salute, che moralmente e fisicamente sono distrutti, penso a chi a questa terra ha fatto dono della sua giovane vita.
E mi vien voglia di piangere.