La gita di Francesco Musoni a Montefosca nel 1898
Montefosca nel 1950
Per quelli che non la conoscono, è doveroso per me farvi leggere la visita effetuata a Montefosca da Francesco Musoni.
Era fotografo, speleologo, storico e uomo politico, fu il primo ad interessarsi ai toponimi montefoscani.
Arrivando a Gorenja Vas fu subito sorpreso dallo splendore del panorama delle valli del Natisone.
Era un uomo pratico e tutto l’interessava ma soprattutto voleva vedere la gente da vicino.
Dopo questa visita, aveva promesso di dedicarsi ai toponimi locali.
Adorava percorrere regioni intere per scoprire il territorio ed i suoi abitanti.
Quando visitò per la prima volta Montefosca, non soltanto fu sorpreso dall’ambiente ma sopratutto dai montefoscani che vivevano ancora all’antica.
Siamo sorpresi ancora oggi da come li descrive; ecco il suo racconto.
Dal libro di Francesco Musoni intitolato “Tra gli sloveni di Montefosca”, Lipa Editrice.
“Montefosca è paese celebre in tutta la valle del Natisone pei suoi abitanti dall’ alta statura, dalle spalle ben tarchiate, dai petti villosi, dall’erculea robustezza; e sopratutto perchè è fama in mezzo ad essi si conservi pressochè inalterato il tipo degli Slavi primitivi: degli Slavi cioè dell’epoca delle loro più antiche immigrazioni in Friuli.
Chi desidera quindi conoscere quali fossero gli antenati di questi nostri buoni ospiti molti secoli addietro, deve fare una visita a Montefosca: visita che riesce tanto più interessante dopo che, per la venuta della principessa Elena in Italia, si volle rilevare l’analogia fra il nome Montefosca (nel dialetto sloveno di S. Pietro Černa Varh) e quello di Montenegro (Črna Gora.
Ecco le ragioni per cui io decisi di recarmivi nel settembre scorso in compagnia d’un mio amico studioso di glottologia...” “...Ecco aprircisi dinnanzi la piccola conca in cui si asside la frazione di Montefosca, meta principale della nostra gita. Alta 725 metri sul livello del mare, è chiusa dal monte Vogu (1164 metri) a nord, dal Juanes (sl. Ivanac) (1168 metri) ad ovest e sud-ovest: aperta a levante sul Natisone, verso il quale scende mediante un gradino ripidissimo, solcato dal torrente Bodrino (sl. Bodrin, Zabrodinam, forse da Brod – guado).
Nel dialetto sloveno di S. Pietro Montefosca viene chiamata Černavarh (Črni Vrh), nome che letteralmente tradotto suona: cima nera.
Eppure il villaggio è non sopra una cima, ma dentro una depressione. L’ebbe esso forse dalla vetta che gli sorge alla spalle, come dal Matajur desunse la sua denominazione il villaggio omonimo del comune di Savogna?
Ma notisi che a tal vetta, solo in pianura si dà il nome di Černavarh, mentre a Montefosca è conosciuta, come dicemmo, sotto quello di Vogu, che, curiosa analogia, significa Carbone, (qualcuno lo vorrebbe derivato da vogel: angolo, spigolo) e a nessuna cima vien dato il nome di Montefosca. A ciò aggiungasi che nè la conca in cui siede il villaggio, nè la cima del Vogu, o Černavarh che la si voglia chiamare, hanno aspetto nereggiante; la prima essendo un paesaggio simile a molti altri di montagna, ricoperto di un discreto rivestimento vegetale; mentre il Vogu è biancheggiante di nude rupi calcaree, ringhiose coi loro denti aguzzi e intramezzate di macchie e di cespugli di nocciuoli e di carpini che solo a grande distanza dànno una tinta severa alla montagna.
Accennammo all’analogia che venne rilevata fra i nomi Černavarh (Montefosca) e Černagora (Montenegro): ora, secondo me, la maggiore analogia consiste precisamente in ciò che di entrambi i nomi si trovano le medesime difficoltà per ispiegare l’origine, poichè anche il Montenegro, terreno carsico, in gran parte coperto di nude rupi calcaree, ha aspetto piuttosto grigiastro che nereggiante.
Tale argomento fu da me diffusamente svolto in un mio opuscolo, al quale rimando il lettore (Dott. F. Musoni.
Del nome “Montenegro”. Udine, Bardusco 1896), in cui sono enumerate le probabili ragioni del frequente ricorrere del color nero (Črni) nei nomi locali slavi, senza che tuttavia io sia potuto approdare ad una conclusione interamente accettabile.
Ma quanti non sono i nomi locali della cui origine non sapremo mai nulla?
E la toponomastica, nonostante il largo sussidio di molte discipline, sarà sempre una scienza incerta, costretta a camminare nel buio ed incompleta.
In ultimo qualcuno potrebbe ancora chiedere: perchè Montefosca e non Montefosco, come sarebbe corretto in italiano? La spiegazione riesce facile quando si pensi che la forma italiana è probabilmente derivata dalla ad essa preesistente forma friulana di Montefosche, notissimo essendo che nel ladino del Friuli il vocabolo monte, è nel più dei casi, di genere femminile.
Allo stesso modo da Montavierte, per ragioni analoghe a quelle di Montefosca, si è ricavata la forma italiana di Monteaperta in luogo di Monteaperto.
Montefosca conta 324 abitanti secondo il censimento del 1881. Stature alte, petti villosi e ch’essi tengono sempre aperti anche durante la stagione invernale, capelli prevalentemente biondi o castani, occhi cerulei o grigi, barbe folte.
Il tipo slavo primitivo forse in nessuna località del Friuli è meglio conservato, poichè qui ab immemorabili i matrimoni si fanno quasi esclusivamente tra paesani: basti dire che vi si incontrano i soli cognomi:
Cencig, Battistig, Laurencig, Menig, Macorig, Specogna, Gujon, Cerneaz, Cernet.
Vivono a lungo e attualmente ben sessantadue d’essi superano i sessant’anni d’età. Parlano con una certa cantilena che rende dolce il loro dialetto e per cui si distinguono da tutti gli altri abitanti della valle del Natisone.
Nel vestire, anche in mezzo ad essi gli antichi e pittoreschi costumi slavi sono scomparsi, ma le donne ancora scendono alla pianura coi lunghi orecchini d’oro e cogli enormi ciondoli che l’esimia scrittrice, signora Caterina Pigorini Beri, qualificò per ornamenti barbarici. Gli uomini durante la stagione invernale vestono abiti di mezzalana (lana e stoppa), preparata in casa, non tinta, ma del colore naturale dalla materia prima: ai piedi scarpetti di panno e le donne, non tutte però, una specie di uose o calze, sprovviste del piede, pure di lana.
Robustissimi, portano tutti i pesi a spalla; e fino giù un pianura fasci enormi di fieno e legna, e fino a Cividale carichi di vitelli e di burro.
Quando ci son più fratelli, quasi sempre si ammoglia uno solo, e di solito il più prestante di forme.
Al maggiore di età si lascia in compenso il diritto di padronanza.
Sono quasi tutti analfabeti, eccettuati cinque o sei che furono soldati.
E del resto, come potrebbe essere diversamente non essendovi una sola scuola in paese?
Quella d’Erbezzo è troppo lontana perchè possano frequentarla spontaneamente o perchè il Comune ve li possa obbligare.
Certamente il Municipio di Tarcetta, da cui dipendono, farebbe ottima cosa ad istituirne una.
Ma come può farlo esso, coll’esiguo suo bilancio di circa ottomila lire annue, di cui ben 2800 sono già spese per l’istruzione?
Se il Governo facesse qualche cosa per quei bravi montanari, vigili e robusti custodi d’un’importantissima strada di confine dalla loro naturale fortezza, impiegherebbe il denaro assai meglio di quel che faccia sussidiando tante inutili istituzioni di cui abbonda il nostro paese.
Ma andategliele a dire queste cose al Governo, senza passare per ingenui!
Falsa la taccia di superlativa rozzezza che molti fan loro.
I pochi coi quali c’intrattenemmo lassù, quantunque a principio diffidassero alquanto di noi, quando furono rassicurati sul conto nostro, li trovammo affabili, chiacchieroni, espansivi molto, curiosi assai, piacevolmente faceti nel discorso: gran buona gente nel complesso.
Non bigotti, ma sinceramente religiosi ed affezionatissimi al loro Cappellano.
La politica non sanno che roba sia: odiano l'Austria per una lite che da lunghi anni sostengono contro la frazione austriaca di Robedischia: lite nella quale spesero già più di 30,000 lire senza ricavarne alcun costrutto.
Di panslavismo non hanno mai inteso a parlare e nessuno dei 194 affigliati che la famigerata Druzba svetega Mohora conta fra gli Sloveni delle nostre montagne, figura nativo di Montefosca.
Del resto, poco si curano di quanto non interessa da vicino il loro paese.
Lì nascono, lì vivono contenti della loro condizione, lì chiudono serenamente la travagliata esistenza.
Tuttavia gli abitanti di Montefosca hanno fama in pianura, certamente esagerata, di assai denarosi.
Ciò solo in parte è vero: poichè frugalissimi, dediti eccessivamente al risparmio, riescono a mettere da parte tutti quei pochi quattrini che ricavano privandosi dei migliori prodotti i quali appena basterebbero loro per sbarcare il lunario, quando avessero maggiori bisogni.
Infatti il paese non produce molto: quasi esclusivamente granoturco, fagiuoli e patate.
Non frumento, nè frutta, nè vino.
Eppure la scarsa campagna vi è di straordinaria fertilità; certo perchè ingrassata da ottimo, abbondante letame, prodotto dai numerosi capi di bestiame che tutti possiedono e che finora conducevano a pascolare sul monte Mia (sl. Mija) di proprietà comunale.
La poca estensione dei terreni coltivabili è causa del loro prezzo assai elevato; e infatti si paga tre e perfino quattromila lire il campo.
Del resto difficile trovare chi venda, poichè tutti i minuscoli proprietari, si studiano di conservare le minuscole proprietà.
Contuttociò Montefosca è il paese, sebbene d’aspetto punto migliore di Erbezzo, nel complesso forse più agiato di tutta la nostra montagna. Prova ne è che dà poco o nessun contingente all’emigrazione e all’epoca del censimento del 1881 tre soli abitanti ne erano assenti, dei quali uno soldato, gli altri due fuori del Regno.
Similmente dai registri dell’esattore comunale risolta che tutti pagano a tempo le tasse e nessuno si lascia cogliere in mora.
Il molto burro e formaggio che producono, vendono quasi per intero fuori del paese, mentre a casa consumano latticello e ricotta che col maiz, con fagiuoli e patate formano la base della loro alimentazione: non dissimile del resto da quella di tutti gli altri Slavi della montagna.”
Guerrino Cencig