Le casere di Chisalizza in Val Torre
La casera di proprietà di Valeriano Lendaro
Cimenti è appassionato di storia locale e attualmente sta conducendo una ricerca sulle croci e le cappelle campestri.
Nel 1995 il presente studio è stato premiato con la medaglia d’argento al concorso «Il dono delle Valli».
Introduzione
Qualche anno fa durante un’escursione nella Valle del Torre, casualmente ebbi modo di visitare l’ex villaggio alpino conosciuto con il nome diCasere Chisalizza.
Da quel momento è nato in me il desiderìo di iniziare una ricerca su tale località, sia consultando le eventuali fonti storiche, che intervistando alcune persone anziane di Pradielis che nella loro gioventù avevano abitato nel periodo estivo in quelle
Casere.
Pet quanto riguarda le fonti storiche locali, devo dire che ho reperito molto poco, poiché l’archivio parrocchiale di Pradielis, a seguito del terremoto, è stato in paste disperso, per cui mancano tutti i volumi del «Libro storico» anteriori all’anno 1920.
Dalla consultazione dell’archivio storico del Comune di Lusevera, non ho ricavato nessuna notizia al riguardo.
Molte notizie, invece, mi sono state comunicate da alcune persone di Pradielis, a cui ho distribuito una scheda d'indagine.
Il toponimo Chisalizza,-nel dialetto locale kisalica (pron: kisaliza), secondo il noto studioso di toponotnastica Pavle Merkù, deriva dall’omofono fitonimo dialettale popolare Kis(e)lica «acetosa» (Rumex Acetosa).
La romice acetosa, in friulano conosciuta con il nome pan-e-vin o pan cucch, è una pianta che cresce comunemente nei luoghi erbosi e nei prati concimati.
Le foglie basali raccolte in primavera, per il loro contenuto in sali, venivano usate per la preparazione di minestre, risotti e nelle insarate crude.
Inquadramento geografico
Le Casere Chisalizza sorgono sul versante
nord del monte Tanavasjo che fa parte della catena del Gran Monte, e ricadono sotto il territorio amministrativo del Comune di Lusevera.
Sono ubicate ad una quota variabile trai 729 e i 8l6 metri si.m., con una esposizione nord―nord est e con una pendenza variabile fra il 40 e il 60 per cento.
Questo agglomerato di fabbricati rurali, benché sia conosciuto da sempre con il termine di casere (così viene indicato anche sulle carte topograficbe), a nostro avviso, sia per le caratteristiche architettoniche che per la sua fisionomia è più esatto considerarlo un villaggio prealpino estivo.
Infatti, queste dimore, costruite completamente in pietra locale, per dimensioni e tipologia sono riconducibili agli stavoli tipici delle vallate prealpine e alpine.
La presenza poi della chiesetta intito1ata a sant’Agostino, vescovo dottore della chiesa, conferisce ancora di più alle Casere Chisalizza l’aspetto di villaggio.
La chiesetta di S. Agostino
L'interno della chiesa
Fino a qualche anno fa la località poteva essere raggiunta solo a piedi, in circa mezz’ora di cammino percorrendo la comoda mulattiera che iniziava presso il secondo tornante, dopo le sorgenti del Torre, della strada statale n. 646 per passo Tanamea e il valico di Uccea.
Nel 1990 venne costruita una pista forestale, che ricalcando in parte l’antico tracciato, arriva fino alle casere e prosegue per la località Cripizza.
Detta pista può essere percorsa con automezzi solo dalle persone autorizzate.
I beni comunali
Da tempi immemorabili le comunità rurali avevano in godimento i beni comunali, questi beni erano appezzamenti di terreno, generalmente a prato e a bosco, dove i «vicini» portavano a pascolare le greggi e le mandrie, e dove, secondo particolari regolamenti consuetudini che ogni comunità si dava, la gente andava a fare legna.
Una tendenza che, da quanto ne sappiamo, inizio sotto il governo dei Patriarchi di Aquileia per continuare poi durante il dominio della Serenissima, fu quella dei nobili e giurisdicenti privati di usurpare queste terre, e di imporvi addirittura decime.
Anche i Comuni sconfinavano sovente con le mandrie e le greggi, dando origine ad una serie ininterrotta di cause.
Per porre freno a questo stato di cose, la Repubblica di Venezia ordinò nel 1608, che tutti i beni comunali venissero catastati e confinati con l’obbligo della posa di confini in petra
(1).
La massiccia ricognizione territoriale interessò i paesi di Ciseriis, Villanova, Lusevera e Stella nell’anno 1613 (2).
In quell’anno Lusevera, Pradielis e Cesaris formavano un’unico Comune e godevano di grandi estensioni promiscue (Comugne), uno dei beni comunali più vasti era sicuramente il Canale di Musi che era goduto in compagnia della ville «schiave» di Stella, Zomeais, Villanova, Coja, Sedilis, Cbialminis e Sammardenchia, nonché la villa di Tarcento (3).
Stranamente i privilegi veneti non ci indicano la superficie di questo vasto bene comunale.
A seguito della guerra di Candia (1667- 1669)la Screnissima si trovò in gravi difficoltà finanziarie, e per poter incamerare fondi autorizzò la vendita di titoli nobiliari, di giurisdizioni ed infine anche la vendita dei beni comunali.
Iniziò così, anche in Friuli, da parte della nobiltà e della borghesia di allora la corsa all’acquisto dei terreni migliori.
Le ville propriamente di montagna restano completamente escluse dalle vendite in quanto nessuno aveva interesse ad acquistare pascoli e boschi in zone quasi inaccessibili.
Il 10 luglio 1839, Sua Maestà LR. (4) con sovrana risoluzione, rinuncia a qualunque diretto dominio sui beni comunali delle Province Venete, a favore dei Comuni interessati e ne autorizza la vendita.
I beni così diventano automaticamente di proprietà del Comune amministrativo nel quale erano situati.
La vendita dei beni comunali a Lusevera avvenne con una certa lentezza, a cominciare dall’anno 1851.
Bisogna attendere il 1868 per veder assegnare con contratti di enfiteusi (5) il 67 per cento dei beni comunali e soltanto nel 1875 si completerà l’operazione.
Con il passare degli anni i
«comunisti» divennero proprietari dei terreni avuti in enfiteusi.
L’aumentata superficie agricola a disposizione del risultanti. I terreni migliori e meno pendenti vennero adibiti alla coltivaztone della patata, del mais e
del fagiolo (6), mentre le superfici prativa a seguito della ripulitura del cespugliameme, spietramento e laute concimazioni davano ottimi foraggi.
Aumentò di molti il numero dei capi bovini allevati e nel contempo si ridusse drasticamente il numero degli ovini e caprini. Le migliorate condizioni di vita fecero aumentare anche la popolazione che in Comune di Lusevera nel 1881 è pari a 238l abitanti e nel 1901 raggiunge il numero di 2929 anime.
NOTE
(1)
Valter Zucchiatti - Cicunins, frucions di storie, pagg. 29-31, SanDaniele 1989.
(2)
Antonio De Cillia, Tarcento e la sua montagna, Udine 1986, pagg; 19― 50.
(3)
Antonio De Cillia- lbidem.
(4)
In quel periodo il Friuli ― Venezia Giulia faceva parte dell’Impero Austro - Ungarico
(5)
Per enfiteusi si intende il diritto di godere di un fondo altrui con l’obbligo di apportarvi migliorie e di corrispondere periodicamente un canone in denaro o in natura.
(6)
Nel comune di Lusevera nel 1907 sì producevano 2070 q.li di patate, 3290 q.li di mais e 383 q.li di fagioli.
I fabbricati rurali
I fabbricati rurali della Chisalizza, alla luce di quanto abbiamo esposto nella puntata precedente, presumibilmente vennero costruiti a partire dagli anni 1850 - 60, benché con molta probabilità già prima esistevano in loco modeste costruzioni per il ricovero del bestiame.
Consultando le mappe del Catasto Napoleonico (1813) e quelle del Catasto Austriaco (1847), non risulta essere presente nessuna costruzione in località Chisalizza.
La prima data certa è il 1866, che compare scolpita sul fabbricato rurale di proprietà degli eredi di Luigi Lendaro di Pietro detto Blasin.
Per quanto ci risulta, le Casere Chisalizza vengono citate la prima volta sulla guida delle Prealpi Giulie di Olinto Marinelli, edita nel 1912.
Il Marinelli dice testualmente «mentre il versante meridionale del Gran Monte è tutto a prati e senza abitazioni poiché l’erba sfalciata d’estate è portata poi ai paesi e utilizzata d’inverno, quello settentrionale è boscoso e con alcuni gruppi di casere.
I boschi sono di faggio e le casere appartengono al solito tipo dell’alto Torre, somigliano cioè piuttosto agli stavoli che non alle malghe della Carnia. Subito dietro alla cresta del Gran Monte sono le Casere Tasaoro (m. 1259) a Lipgnak (m. 1366), più in basso quelle di Cripizza (m. 923 e 831) e Chisalizza (m. 812 e 734)».
Dal volume stilato da Pietro Riva, dal titolo «Il distretto di Tarcento - cenni sulle condizioni fisico - naturali ed agrarie» pubblicato nel 1932, veniamo a sapere che le casere - stavoli della Chisalizza sebbene male esposte (nord, nord-est) presentano dei terreni piuttosto fertili, con produzione fino a 20 q.li di fieno secco ad ha, grazie anche alle abbondanti e costanti letamazioni che venivano effettuate.
Numerose sono, continua il Riva, attorno ai fabbricati rurali, delle piccole particelle di prato, chiuse da muretti a secco e dette localmente «lac». L’autore scrive che le superfici pascolive che gravitano attorno al villaggio sono molto modeste, e ciò contrasta con le molte e più che decorose costruzioni che ivi sorgono.
Il villaggio prealpino, infatti, è contornato dal bosco di faggio (1), il quale essendo di proprietà privata è costantemente vigilato. Il sistema di conduzione di queste piccole aziende agricole, continua il Riva, è però molto lontano da quello che potrebbe essere il più redditizio e ciò dipende in gran parte dal temperamento individualista delle popolazioni.
Ogni proprietario, infatti, accudisce direttamente alla propria mandria, sovente costituità da pochi capi e la fa pascolare sui terreni di sua proprietà privata. Solo per la lavorazione del latte ricorre all’associazione, limitando la cooperazione a quel tanto che è quasi impossibile di escludere.
Di ogni casolare, il malghese ha «sacrificato» al caseificio l’angolo migliore: ivi serba utensili propri spesso approssimati ed imperfetti, che impiega nella trasformazione del latte.
La caldaia appartiene per lo più ad un gruppo di proprietari, unico arnese comune.
Per quanto riguarda le caratteristiche architettoniche delle costruzioni, il Riva ci dice che alcuni di questi fabbricati hanno dei bei serramenti, muri a malta e cisterne ben costruite, che palesano buon gusto e perfino eleganza.
Mancando delle sorgenti in zona, l’approvvigionamento idrico avveniva tramite la raccolta dell’acqua piovana.
NOTE
(1)
Grossi disboscamenti vennero eseguiti durante l’ultimo conflitto mondiale e negli anni immediatamente successivi.
La chiesetta
Nel mese di maggio del 1925, il capo borgo delle Casere Chisalizza ed ex sacrestano di Pradielis, Giovanni Cullino, fece benedire dal curato di Pradielis, don Luigi Novello, una campanella. Padrini della medesima, come da tradizione, furono tre suoi nipoti, Cullino Anselmo, Cullino Primo e Cher Vincenzo.
Questa campanella fu collocata su un tiglio davanti ai casolari in Chisalizza, e veniva suonata ogni giorno in corrispondenza dei segni consueti.
In occasione della IV visita pastorale effettuata dall’arcivescovo Anastasio Rossi il 7 marzo 1927, la parrocchia di Pradielis ha pubblicato il numero unico «Il giornale di Pradielis». Fra gli altri articoli compare un trafiletto sulle Casere Chisalizza che recita: «comprende il gruppo di casere più numeroso del canale di Musi. L’antico sacrestano, Giovanni Cullino, gran maneggione in difesa dei diritti pradellani, vi ha provveduto una bella campana e sta ora studiando l’erezione di una piccola cappella.
Nei mesi estivi vi funge come da cappellano, tenendo su il Santo Rosario, ecc.
Sette anni dopo si avverarono i sogni del Cullino. Il libro storico della parrocchia di Pradielis riporta,
«17 settembre 1934, viene finalmente benedetta per modium loci la cappella delle malghe di Chisalizza, questo giorno fu pure celebrata la S. Messa da parte del rev.mo vicario foraneo, mons. Camillo Di Gaspero, presenti il cooperatore di Tarcentò don Giovanni Altinier e il vicario locale.
La comunione fu solo per quest’anno.
Molta gente, fuochi e spari di mortaretti».
Assieme al Giovanni Cullino, un’altra persona che si diede molto da fare per l’erezione della chiesetta fu Angela Culetto di Pradielis.
Questa donna, infatti, passava di casa in casa a chiedere soldi oppure generi alimentari che poi lei vendeva devolvendo il ricavato per la costruzione dell’edicola sacra. Andava nel bosco a fare fascine di legna, che poi vendeva, oppure andava ad aiutare alcune famiglie per guadagnare qualche soldo; tutto quanto riusciva a risparmiare veniva accantonato per il medesimo scopo.
Questo oratorio, fin dalla sua costruzione fu molto amato dalla popolazione di Pradielis, mentre non era tenuto in altrettanta considerazione dal locale vicario.
Infatti, il 18 marzo 1940 l’arcivescovo Giuseppe Nogara compie a Pradielis la sua seconda visita pastorale, era allora vicario don Nicolò Fior.
In occasione di questa visita, il vicario compila il questionano generale e alla domanda se esistono in parrocchia oratori privati, il vicario risponde negativamente.
Da un docùmento presente nell’archivio parrocchiale di Pradielis, veniamo a sapere che la Curia arcivescovile di Udine, con proprio atto di data 19 agosto 1940, autorizza il vicario di Pradielis a celebrare una S. Messa all’anno nella cappelletta di Chisalizza.
Questo documento quindi ci conferma che fino al 1940, nella chiesetta di Chisalizza era stata celebrata la S. Messa solo nel giorno della benedizione della stessa.
Con lettera del 30 luglio1953, conservata nell’archivio Parrocchiale il vicario di Pradielis, don Giulio Mentil rivolge istanza alla Curia di,Udine, affinché egli possa celebrare una S. Messa nella cappelletta di Chisalizza anche il giorno della benedizione delle case nella suddetta località.
Non siamo venuti a sapere se la Curia abbia risposto in maniera positiva o meno a questa richiesta.
Il santo titolare della chiesetta è San Agostino, vescovo e dottore della Chiesa, e si festeggia il 28 agosto.
Sant’Agostino nasce a Tagaste in Tunisia
nel 354, suo padre Patrizio era pagano mentre sua madre Monica era cristiana.
Dopo un periodo giovanile turbolento, Agostino si trasferisce prima a Roma e poi a Milano e qui dopo un’incontro con il vescovo Ambrogio decide di prendere i voti, diventerà poi vescovo di Ippona.
Sant’Agostino è ricordato per aver scritto numerosi libri a sostegno delle grandi verità del Cristianesimo , dell’integrità della fede.
La chiesetta di Sant’Agostino a Chisalizza presenta un’aula rettangolare di dimensioni cm 307X400 ed un'altezza di cm 380 circa anche il presbiterio è rettangolare e misura cm 270x132; l’aula è divisa dal presbiterio da un arco trionfale a tutto sesto.
Le pareti interne sono intonacate e dipinte di bianco, il pavimento è in cemento lisciato e tinto di rosso.
Il piano di calpestio dell’abside risulta leggermente più alto (due scalini) e vi troviamo un altarolo in cemento, una cornice per pala d’altare in cemento abbellita da rosoni e angeli in gesso; anche l’arco trionfale presenta alcuni angioletti in gesso.
Sull’altare troviamo un crocifisso in legno di autore locale, quattro candelabri in ottone di mediocre fattura e una statua della Madonna di Lourdes in gesso.
Un semplice altarolo in legno, rivolto verso i fedeli, è stato collocato di recente.
Durante la festa del patrono, sull’altare viene collocata una dolce immagine della Madonna, racchiusa dentro una elaborata cornice in legno.
Detta immagine nel restante periodo dell’anno viene conservata dalla signora Manarosa Culetto, questo per impedire che venga trafugata.
Il pregevole quadretto è stato restaurato recentemente nelle parti in legno da Umberto Cher.
Sui due lati dell’arco trionfale sono state collocàte due epigrafi in marmo bianco, quella di sinistra recita
«A ricordo di Culetto Angela, fondatrice di questa chiesa»;
su quella di destra è scritto:
«Il comitato Chiesetta di Chisalizza all’alpino Molaro Silvano»,
deceduto mentre stava rientrando a Pradielis al termine della festa di S. Agostino.
Esternamente, sul lato destro è collocata la nuova campanella.
La vecchia, fusa all’inizio degli anni 20, venne trafugata prima dei terremoti del 1976.
I padrini della nuova campanella sono Donata Cullino, Amadio Marchiol, Giacinto Marchiol e i
suoi fratelli.
Il Il tetto è a due falde con copertura in coppi.
La chiesetta sorge su un terreno di mq. 29 di proprietà della Curia Udinese.
La chiesetta così come è stata descritta, è il risultato dell’intervento di ripristino effettuato dopo il terremoto del l976.
Infatti nell’anno 1980, a ulteriore conferma di quanto la popolazione di Lusevera in generale è quella di Pradielis in particolare sia legata a questo oratorio, si costituì un comitato per il restauro, denominato «Comitato Chiesetta Chisalizza», il cui coordinatore era Giovanni Coos di Predielis. I volontari erano fortemente intenzionati, a procedere al restauro, rimaneva però il problema del trasporto.
Finalmente nella primavera deI 1983, superate tutte le pratiche burocratiche con i comandi militari, si procede al trasporto dei materiali edili necessari con l’elicottero.
L’intervento di ricostruzione viene eseguito gratuitamente dai membri del citato Comitato.
Con grande partecipazione di pubblico il giorno 21 agosto 1983, festa patronale di San Agostino, viene inaugurata la graziosa chiesetta della Chisalizza.
---++I fabbricati di Chisalizza
I fabbricati rurali delle Casere Chisalizza inizialmente avevano tutti una forma rettangolare ed erano costituiti da un pianoterra ed un primo piano-sottotetto; la larghezza media era di 4 o 5 metri, mentre la lunghezza variava da 5 a 8 metri, per cui meidamente la superficie, su due piani, di questi fabbricati andava da 40 a 80 mq.
In seguito alcuni fabbricati vennero ampliati nel senso della lunghezza con l’aggiunta di vani di dimensioni più contenute quanto a larghezza.
Forse data l’esposizione non favorevole, nord-nord-ovest, questi fabbricati non presentavano poggioli e le scale di accesso alle stanze superiori sono tutte interne.
Solo la chiesetta (ripristinata di recente), la casa di proprietà degli eredi di Luigi Lendaro di Pietro detto Blasin e la casa di proprietà degli eredi di Amalia e Angela Culetto, dette Farinons, sono intonacate, mentre le altre sono in pietra a vista.
Trattasi di pietra locale lavorata in maniera sommaria, le costruzioni più aptiehe presentano stipiti e architravi in pietra, quelle rimaneggiate in tempi recenti li hanno in cemento.
Lo spessore dei muri normalmente è pari a 50 cm.
tutte le costruzioni presentano due vani per piano; al pianterreno troviamo la Cucina abbastanza spaziosa
(m. 3,15 - 3,55 x 4,20 -3,70) con attigua una cantinetta (m2,20 x2,60).
Nella cucina troviamo il focolare o la stufa in mattoni, al piano di Sopra due camerette, oppure una Camera e uun ripostiglio.
Anche le aperture dei diversi fabbricati presentano dimensioni standard, le porte cm. 175 di altezza e cm. 75 di larghezza, le finestre, tutte dotate di inferriate, cm. 85 di altezza e cm 70 di larghezza.
In aderenza alle abitazioni sorgono i fabbricati
rurali veri e propri, adibiti a stalla al pianoterra e fienile al primo piano.
Le dimensioni di questi fabbricati sono mediamente di m 6 di lunghezza e di m 4 di larghezza, dimensionati cioè per 5-8 capi bovini.
Alcune costruzioni presentano anche piccoli ricoveri per capi caprini o ovini.
I tetti dei fabbricati sono tutti a due falde con copertura di ceppi appoggiati su tavelle.
Come dicevamo in un altro capitolo, sul fabbricato che al catasto risulta ancora oggi intestato a Luigi Letndaro di Pietro, detto Blasin, nato nel 1868, compare la seguente iscrizione:
1866 -F.F.P.P.
Le lettere F.F. significano «fecit fare», non sono chiare invece le iniziali P.P. in quanto nessuno dei proprietari delle Casere Chisalizza ha un cognome che inizia con la lettera P.
Nel villaggio prealpino era stata aperta una cava di ghiaia ed era stata costruita una fornace (calcare) per la produzione della calce viva.
Giovanni Culetto ci hà riferito che il fabbricato rurale adibito a stalla, ora di sua proprietà, era stato ristrutturato neI 1935 con un contributo statale erogato dall’Ufficio di bonifica di allora.
La casera ora di proprietà di Giovanni Culetto
Completati i lavori, era stato imposto di collocare sopra la porta di ingresso del fienile i fasci littori scolpiti su una pietra.
Detto simbolo venne scalpellato al termine della seconda guerra mondÌale.
Consultando la cartografia catastale vigente, redatta nell’anno 1952, vediamo che alle Casere
Chisalizza sono censiti n. 26 fabbricati rurali e loro annessi, oltre alla chiesetta, e che la proprietà è suddivisa fra le seguenti famiglie tutte di Pradielis: Collino 1 fabbricato, Culetto 4, Cullino 3, Di Lenardo 2, Lendaro 3, Marchiol 7, e Molaro 6.
Ruderi della casera di proprietà eredi Molaro Caterina
A seguito dei noti eventi sismici del 1976, i vecchi fabbricati rurali subirono parecchi danni. aggravati dalle infiltrazioni d’acqua e dalla invasione della vegetazione.
Gli eredi dei vecchi proprietari erano impegnati nella ricostruzione delle proprie abitazioni in vallata e non avevano certo il tempo e il denaro per riattare la antiche casere.
Il restauro della chiesetta e la ripresa della
tradizionale festività di Sant’ Agostino diedero un nuovo impulso alla vita delle casere, stimolando i proprietari a provvedere a piccoli lavori di riatto.
Il problema insormontabile rimaneva quello della mancanza di una viabilità di accesso, seppure minore, che potesse permettere il trasporto con mezzi meccanici dei materiali necessari per la ricostruzione dei fabbricati.
L’occasione si presentò nel 1990, quando la Comunità montana «Valli del Torre» finanziò la -costruzione di una pista forestale che coI1egava le casere Chisalizza con la strada statale Tarcetlto - Uccea.
In questi ultimi cinque anni sono state ristrutturate 2 casere, e cioè quelle di proprietà di Giovanni Culetto e Valeriano Lendaro.
Lentamente quindi il piccolo villaggio prealpino ha iniziato una nuova stagione e nel periodo estivo i pronipoti degli antichi originari vi trascorrono alcuni
giorni di ferie.
I terreni agricoli
Nel periodo fra le due guerre nelle casere Chisalizza si allevavano fino a 40 capi bovini, 30 pecore e alcuni maiali. Per poter alimentare tutti questi animali erano necessarie grandi quantità di fieno, e le superficie a prato stabile che contornavano le casere erano insufficienti.
Questi prati venivano sfalciati due volte all’anno e solo nelle stagioni migliori si faceva un terzo taglio. Ciò era possibile date le laute concimazioni organiche a cui erano sottoposte queste superfici prative.
Ma ciò non era sufficiente per cui le persone addette allo sfalcio dovevano recarsi anche in località molto distanti dalla Chisalizza a fare il fieno, e alcuni si spingevano fino alle Casere Tasaoro a 1266 ms.l.m. L’erba essicata veniva trasportata a valle mediante l’uso di apposite slitte o con rudimentali teleferiche.
Consultando la cartografia catastale vigente, redatta nell’anno 1952 vediamo che le superfici agricole avevano le seguenti dimensioni:
Prato Ha 13,29, Seminativo Ha 0,24.
Nel 1978 invece, uno studio effettuato dalla Comunità montana delle Valli del Torre di Tarcento, dal titolo «Mappa dei pascoli e degli alpeggi» indicava in 24 Ha la superficie prativa che dopo i necessari lavori di ripulitura e decespugliàmento poteva essere utilizzataa pascolo.
Attualmente i prati che circondano le casere sono stati colònizzati. quasi completamente dalla vegetazione arborea e arbustiva.
Nelle casere Chisaljzza non ci sono sorgenti, per
cui l’approvvigionamento dell’acqua, sia per abbeverare gli animali che per gli usi domestici, veniva fatto in diversi modi. Ogni casera era dotata di una cisterna collegata con le grondaie del tetto per raccogliere 1’ acqua piovana. Le cisterne erano dotate di una apertura in alto o lateralmente per permettere ad una persona di potervi accedere periodicamente, per la pulizia della stessa.
In prossimità della chiesetta era stato costruito in forma collettiva un’acquedotto, che con un sistema ingegnoso raccoglieva l’acqua piovana che scorreva sul terreno a monte del manufatto e la convogliava all’interno del medesimo. Diverse poi erano le pozze per la raccolta dell’acqua meteorica, tali piccole depressioni erano impermeabilizzate con l’argilla.
In casi estremi, nelle annate di prolungatà siccità, i solerti abitanti delle casere si recavano in località «Tasacuzion», a quota 1260 m.s.Lm. dove c’era una piccola sorgente, oppure nella «Zacouzei» o nella lavina.
I due acquedotti ubicati presso la chiesetta
Per quanto riguarda i ter-reni boscati, attingendo al catasto vediamo che le superfici boscate erano nel 1952 così dimensionate: bosco alto Ha 11,72, bosco ceduo Ha 10,38.
Attualmente, con l’abbandono dell’attività agricola, le superfici boschive si sono espanse a spese dei terreni prativi.
La vegetazione forestale è costituita prevalentemente dalle seguenti specie, con densità diverse a seconda della pendenza e dell’esposizione:
- frassino maggiore (Fraxinus excelsior)
- frassino minore (fraxinus ornus)
- faggio (Fagus silvatica)
- acero di monte (aùer pseudoplatanus)
- ontano nero (Alnus glutinosa)
- ciliegio selvatico (Prunus avium)
- carpino bianco (Carpinus betulus)
- carpino nero (Ostrja carpinifolia)
Recentemente alcune persone, hanno eseguito alcuni lavori di ripulitura e di diradamento dei propri fondi boscati, considerato che ora il materiale legnoso ottenuto può essere facilmente trasportato a valle.
La vita nelle casere
I proprietari delle casere si recavano in Chisalizza verso la fine di aprile, o i primi giorni di maggio a seconda dell’andamento stagionale.
Le famiglie si spostavano al completo, lasciando a casa solo i bambini di piccola età e le persone anziane, portando con loro i bovini e le pecore e qualcuno anche i maiali.
In primavera quindi il villaggio alpino si animava, considerato che mediamente erano 40 le persone che si trasferivano lassù, e in alcuni anni particolari si contarono fmo a 50.
L’esodo durava fino alla fine di settembre, ma alcune famiglie (3-4) si fermavano fino alla prima neve.
Non c’era un fabbricato destinato a latteria, ognuno faceva il formaggio nella propria casera, con il sistema turnario, veniva prodotto anche burro e ricotta che poi veniva affumicata.
Il latte utilizzato per la produzione del formaggio veniva sgrassato al massimo, per ottenere la maggior quantità possibile di burro che veniva venduto.
Il formaggio che ne derivava era asciutto e non molto buono e veniva consumato in famiglia.
Gli animali non venivano fatti pascolare ma erano sempre tenuti in stalla.
Vicino ai fabbricati rurali ogni famiglia aveva dei campetti, in dialetto locale «bankieze».
Data la notevole pendenza del terreno, questi seminativi venivano realizzati predisponendo a valle un muro a secco e riempiendo la cavità che si formava dapprima con materiali lapidei e poi nella parte superficiale con 30 cm. di terriccio accuratamente setacciato.
Venivano coltivate patate e fagioli e i risultati erano ottimi sia come qualità che quantità, infatti diverse famiglie si recavano in pianura a scambiare questi prodotti con il granoturco.
Tutti i trasporti venivano effettuati a spalla, nessuno possedeva un’animale da soma.
Gli abitanti delle casere si dedicavano anche alla coltivazione di piante da frutto, quali meli, peri, susine e ciliegi.
Con le susine e anche con i frutti del sorbo degli uccellatori venivano prodotti alcuni distillati.
Veniva praticata anche la raccolta delle fragoline di bosco e dei lamponi; che in parte venivano venduti freschi a qualche famiglia benestante di Tarcento.
La maggior parte dei frutti raccolti però era venduta alle distillerie Candolini di Tarcento, che provvedevano con un proprio automezzo alla raccolta di tali prodotti.
Le giornate in Chisalizza trascorrevano in maniera serena e ciascun componente delle diverse famiglie era impegnato nei diversi lavori agricoli e domestici.
In primavera all’arrivo nelle casere, tutti erano infervorati in diverse occupazioni. Le donne facevano le pulizie all’interno dei fabbricati e provvedevano al risciacquo delle stoviglie riposte nell’anno precedente, poi aiutate dalle figlie più grandicelle si recavano nei prati attigui a rastrellare le foglie e i rami che si erano depositati in inverno.
Terminati questi lavori provvedevano a distribuire uniformemente il letame sulle superfici prative.
Intanto veniva il tempo di provvedere alla pulizia dei campetti, dove, dopo l’asporto delle stoppie, si faceva la concimazione organica e poi la vangatura.
Compito degli uomini invece era quello di procurare i bastoni per il sostegno dei fagioli (rakle»), scegliendo i polloni di nocciolo più adatti.
Diversi erano i lavori di manutenzione a cui dovevano provvedere gli adulti maschi: c’era qualche tegola da sostituire sul tetto, bisognava pulire bene le grondaie intasate dal fogliame, rinforzare le staccionate in legno, eseguire piccole manutenzioni ai numerosi muri a secco a sostegno dei campetti o a quelli che delimitavano i diversi poderetti attigui alle case.
Il «vecchio Culino» era colui che, dato il particolare ingegno, era addetto ad aggiustare gli attrezzi agricoli di proprietà di tutte le famiglie.
Compito dei ragazzi era quello di andare nei boschi vicini a raccogliere la legna secca e provvedere ad abbeverare il bestiame, nonché ad aiutare i propri genitori ove occorresse.
L’alimentazione degli abitanti della Chisalizza era molto frugale.
La mattina a colazione si consumava polenta con ricotta o latte, a mezzogiorno polenta e frico o formaggio con contorno di verdure, alla sera minestrone o «mesta» e latte.
Nei giorni festivi si mangiavano gli gnocchi o la «ozicana» (1), raramente la pastasciutta o lo «stach» (2).
Le bevande chbesi consumavano erano l’acqua e il latte, solo nei giorni di festa gli uomini bevevono vino e grappa.
La sera dopo la cena, tutti si recavano sotto la campanella prima e nella chiesetta poi, per la recita del S. Rosario.
Terminata l’orazione alcune persone si sedevano sotto i grossi tigli (lipe), chi a giocare chi a chiacchierare, poi alcuni rintocchi della campanella segnalavano che era ora di andare a letto.
Durante l’ultima Guerra Mondiale, e in particolare dopo l’8 settembre 1943, parecchie persone provenienti da diversi paesi della valle si rifugiarono in quelle casere per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi.
L’attività agricola in Chisalizza continuò con alacrità fino a metà degli anni 50, poi diminuì gradualmente e nel 1959 erano rimaste solo due le famiglie che si spostavano stagionalmente nel villaggio prealpino.
NOTE
(1)
Specialità culinaria locale ottenuta versando sulla polenta tenera, burro fuso amalgamato con formaggio fresco e stagionato.
(2)
Piatto composto da una purea di patate e fagioli e soffritto di pancetta.
---++Le croci di Tasaliesu
Le borgate alpine di Musi (Tanataviele) e Simaz in comune di Lusevera fino all’anno 1926, erano collegate con l’abito di Pradielis da una mulattiera, parte della quale è percorribile ancora oggi.
Infatti solo nel 1926 venne iniziata la costruzione
della carrozzabile Pradielis - Musi - Passo di Tanamea, che venne terminata completamente solo nel 1937. (1)
Tale mulattiera infatti dopo aver attraversato i prati e i coltivi a nord di Pradielis si portava sulla destra orografica del torrente Torre e per un lungo tratto era delimitata da muri a secco, fino a quando non si avvicinava alla presa d’acqua per la centrale idroelettrica di Vedronza.
Attraverso una passerella in legno veniva oltrepassato il torrente, poi la mulattiera iniziava a salire sul fianco sinistro della valle, dapprima procedeva con pendenza media fino in prossimità della grande frana che in tempi remoti aveva sbarrato il corso del Torre e creato un piccolo lago. (2)
Secondo uno studioso di storia locale (3), detto invaso si è formato circa 10.000 anni fa, e la sua profondità media, durante il suo massimo sviluppo, era pari a una trentina di metri.
In prossimità della frana dicevamo, la vecchia mulattiera per superare tale ostacolo, iniziava un percorso piuttosto ripido che terminava presso le croci di Tasaliesu o Tasaliezo (4).
Questa località, che sorge a quota 625 m.s.l.m., è caratterizzata da un leggero ripiano, e nel dialetto
sloveno locale significa «dietro il legname» (da tasa = dietro e liesa = legname).
Presso le croci di Tasaliesu la strada mulattiera si biforcava, sulla sinistra scendeva verso la Valle del Mea e le borgate di Musi e Simaz, proseguendo diritto conduceva alle Casere Chisalizza e Cripizza.
Nel foglio catastale n. 14 del Comune censuario di Lusevera, riprodotto nell’anno 1950, la mulattiera Pradielis - Musi, sopra menzionata, è indicata come strada comunale di Musi.
Le numerose persone che percorrevano tali mulattiere, erano solite fermarsi su quel ripiano per una breve pausa e per scambiare quattro chiacchiere. lis - Musi, sopra menzionata, è indicata come strada comunale di Musi.
Le numerose persone che percorrevano tali mulattiere, erano solite fermarsi su quel ripiano per una breve pausa e per scambiare quattro chiacchiere. In quegli anni tutte le merci venivano trasportate a spalla, mediante l’uso della gerla, per cui lungo tutto l’arco della giornata c’era un gran fervore di persone che scendevano a vendere i loro poveri prodotti della
terra, e che risalivano portando i generi alimentari o le mercanzie che avevano scambiato o acquistato.
In questa località sorgono 5 croci in ferro battuto, collocate su tre grossi massi calcarei irregolari, distanti una ventina di metri uno dall’ altro.
La prima croce che si incontrava sul ripiano, fissata ad un masso con del piombo, ha le seguenti dimensioni: altezza cm. 33, larghezza cm. 33, e i bracci sono dotati di terminazioni lanceolato-arrotondate.
I bracci sono fissati con un chiodo a testa umbonata, ribattinato nella parte posteriore.
Sul braccio orizzontale risulta inciso in corsivo con grafia imperfetta il nome di Domenico Marchiol, le lettere - q - v e la data 1853.
Questo segno del sacro, presenta una fattura molto semplice a differenza degli altri.
Presumibilmente questa è la più vecchia fra le croci presenti, di recente è stata divelta da qualche «vandalo».
A poca distanza da questo primo masso, ad una quota leggermente inferiore, troviamo la seconda grossa pietra su cui sono collocate tre croci di misure diverse.
Al centro troviamo la croce di dimensioni maggiori, alt. cm. 75, larg. cm. 67.
Questa è indubbiamente fra le cinque, quella che ha uno stile più ricercato, al centro presenta una rosa in ferro battuto a quattro petali, e posteriormente a questa un motivo ornamentale. I bracci terminano con un motivo lanceolato appuntito.
Non presenta nè iscrizioni nè targhetta.
NOTE
(1)
Paolo Montina - Un secolo di viabilità nella Val Torre - Sta in «Lusevera nell’Alta Val Torre» -Udine 1991.
(2)
Olinto Marinelii - Guida delle Prealpi Giulie -Società Alpina Friulana - Udine 1912.
(3)
Paolo Montina - La Val Musi tra storia e leggenda―In Alto- n. 3,1993.
(4)
Alcune persone di Pradielis indicano tale località con il nome di Tasalieson.
Sulla parte sinistra troviamo una croce di dimensioni più contenute, alt. cm. 60, larg. cm. 48, ma curata nella esecuzione.
Al centro dei bracci presenta un rosone, in ferro battuto, a sei petali, cinque dei quali sono rovinati.
Nella parte basale del braccio verticale è fissata una targhetta in rame di forma quadrata (cm. 13 x cm. 13) dagli angoli arrotondati, con la seguente epigrafe
«Alla cara memoria di Giovanni Culetto, marito e padre amato, morì tragicamente il -25 nov. 1912 - nato il 29 gennaio 1875».
I bracci terminano con un motivo ovale - appuntito.
Particolare del masso sul quale sono fissate le croci
Sulla parte destra troviamo la croce più piccola di questo gruppo, alt. cm. 41, larg. cm. 30, di esecuzione molto semplice che non presenta nè scritte nè targhetta.
I bracci sono dotati di terminazioni lanceolate appuntite, e sono fissati mediante un chiodo, a testa umbonata, ribattinato posteriormente.
Ad una ventina di metri da questo gruppo troviamo il terzo masso, che reca la quinta croce.
Questo segno del sacro ha le seguenti dimensioni:
alt. cm. 53, larg. cm. 39, ed è stato eseguito con una certa ricercatezza stilistica.
Al centro dei bracci la croce presenta un rosone a sei petali, perfettamente conservato, con al centro una borchia che oltre alla funzione estetica ha anche il compito di fissare i bracci stessi. Nella parte bassa del braccio verticale troviamo una targhetta in lamiera, abbastanza deteriorata, di forma rettangolare (cm. 18 x cm. 11,5) con gli angoli arrotondati, con la seguente epigrafe
«Angela Lendaro morì 4 agosto 1891, d’anni 19- requiem».
Ho potuto accertare con sicurezza, che le persone ricordate con le croci di Tasaliesu, sono morte per cause diverse in varie località del versante nord del Gran Monte, ma per convenzione il segno sacro in loro memoria è stato collocato nel ripiano di Tasaliesu.
La croce in memoria di Angelo Lendaro
Per conosccere la causa della morte tragica di queste persone ho interrogato qualche abitante di Pradielis, frazione di cui presumibilmente erano native le persone decedute.
Secondo alcuni le cause dei decessi sono dovute ad incidenti sul lavoro (taglio del bosco) e a cadute accidentali.
Secondo un’altro informatore, una o due delle persone anonime sono morte precipitando in un canalone mentre esercitavano il contrabbando del tabacco con il vicino Impero Austro - Ungarico.
Infatti prima del 1918, l’attuale confine con la Slovenia, delimitava il Regno d’Italia dall’Impero Asburgico.
Consultando l’archivio anagrafico del Comune di Lusevera, nell’atto di morte di Culetto Giovanni è stato riportato quanto segue:
«mori in località Loralava, Musi, a seguito di una caduta da una roccia, figlio di ignoto e di Culetto Maria».
Nell'atto di morte di Angela Lendaro invece è stato riportato quanto segue:
«contadina, morì alle ore 9,20 nella casa posta in Musi, numero nessuno, nata a Lusevera da Giobatta, contadino, e Marchiol Rosa, contadina».
Presumibilmente, Angela Lendaro deve essere deceduta presso le Casere Chisalizza o Cripizza, che essendo abitazioni temporanee non erano dotate di numero civico.
Con buona probabilità si può affermare che le persone ricordate con le croci sopra menzionate, siano tutte decedute in un periodo che và dalla metà dell’ottocento agli anni ‘20 del presente secolo, cioè prima della costruzione della strada carrozzabile.
La mulattiera che dal ripiano di Tasaliesu scende verso il torrente Mea, e quella che sale verso le Casere Chisalizza e Cripizza, sono state interrotte in più punti dalla recente costruzione di una pista
forestale.
Lorenzo Cimenti
DOM 98