Bagliori di morte sul Litorale
Dopo nove mesi di tentennamenti l'Italia abbandona la neutralita'
80 anni fa, l’Italia abbandonava la neutralità - dopo nove mesi di tentennamenti - e si gettava nella mischia, sicura di ottenere in breve tempo dei grossi vantaggi; gli interventisti esultarono per la dichiarazione di guerra all’Austria - Ungheria, inneggiando al «maggio radioso»; analoga dichiarazione seguì nei confronti della Germania, il 28 agosto 1916.
Ma quella fatidica data del 24 maggio 1915 sinboleggia in realtà - per sempre - l’inizio di un massacro, deciso cinicamente dal capitalismo italico e dalla monarchia sabauda: essi immolarono, per la conquista delle «terre irredente», un numero di vite umane (700 mila!) che corrispondeva più o meno a quello dei «fratelli liberati», cioè gli abitanti del Litorale adriatico, i quali per contro null’altro chiedevano - nella stragrande maggioranza - se non di vivere in pace.
L’Italia era in ogni caso impreparata per una tale avventura insensata; basti qui ricordare la risposta che si ebbe Nitti, avendo chiesto (quale ministro delle Finanze) se fossero assicurati alle truppe i rifornimenti almeno fino alla primavere successiva; a lui replicò seccamente il presidente del consiglio Salandra:
«Il tuo pessimismo è veramente inesauribile. Credi che la guerra possa durare davvero fino ad allora?».
E lo stesso comandante dell’esercito sabaudo, il generale Cadorna, era certo di conquistare rapidamente sia Trieste che Lubiana, per poi dilagare nella pianura pannonica.
Allorquando le truppe italiane diedero comunque inizio alle operazioni belliche, il feldmaresciallo Svetozar Boroevi# (1856 - 1920) divenne il comandante in capo del fronte dell’Isonzo; la linea difensiva si estendeva inizialmente dalla costa adriatica fmo al Triglav (il Tricorno, la più alta vetta slovena), ma poi essa venne arretrata, tanto che nell’ autunno del 1917 andava da Duino al Krn (Monte Nero), presso Tolmino.
L’esercito Sabaudo fu contrastato con decisione dai soldati imperiali in undici sanguinose battaglie; le colline di Doberdò videro le eroiche gesta dai soldati sloveni in difesa del Litorale: quei luoghi divennero «la tomba dei giovani sloveni». Ma il 24 ottobre 1917 la controffensiva sfondò il fronte italiano a Kobarid (Caporetto), ricacciando indietro gli avversari fino al Piave: travolti in questa dodicesima battaglia, essi poterono salvarsi dalla definitiva disfatta grazie anche all’intervento degli alleati inglesi e francesi, che schierarono undici divisioni.
Boroevič si meritò l’appellativo di Leone dell’Isonzo (der Lòwe vom Isonzo), per il suo fulgido comportamento di uomo e di soldato in quei tragici frangenti.
Le successive divergenze che lo opposero al feldmaresciallo Conrad von Hòtzendorf, insieme alle gravi difficoltà di approvvigionamento dell’esercito austro-ungarico, causarono l’insuccesso dell’ultima
offensiva in Veneto, nel giugno del 1918.
Boroevič era allora del tutto contrario a lanciare un’offensiva, visto che la pace sarebbe, prima o poi, arrivata: importava invece che l’Austria vi giungesse ancora forte, ossia nelle migliori condizioni possibili; era pertanto ininfluente il fatto che le truppe austro-ungariche si fossero fermate all’Adige o avessero raggiunto il Piave.
Ed allora, Boroevič avvertiva il comando supremo dell’esercito a Baden (28 maggio 1918):
«Nessuno può assumersi la responsabilità di dar inizio ad un’operazione bellica con supporti materiali insufflicienti e con uomini malnutriti e pertanto inabili al combattimento...».
Ciò nonostante, il comando ordinò l’attacco contro le postazioni nemiche, a partire dal 15 giugno.
Fra i soldati si era fatta molto insistente la propaganda, rivolta soprattutto agli Slavi: si faceva leva sulla prospettiva dell’autodeterminazione e della costituzione di Stati indipendenti.
Tra il 15 ed il 25 giugno 1918 morirono 20.000 soldati austro-ungarici e 10.000 furono fatti prigionieri; sull’altro fronte caddero 8.000 Italiani e ben 40.000 vennero catturati; l’aviazione imperiale, benché più debole di quella sabauda, abbatté 42 aerei (perdendone soltanto 31).
In Francia ed in Inghilterra ci si stupiva che l’Austria - a parità di forze, e nonostante la fame e le controversie interne - fosse sempre riuscita a dimostrare la sua superiorità...
La cosiddetta «battaglia del solstizio» fu in realtà
un successo dei combattenti austro-ungarici: non furono insomma i soldati a perderla, bensì i politici.
Il 29 ottobre 1918, il gruppo di armate austroungariche subì uno sfondamento; dal comando giunse allora l’ordine di evacuare gradualmente il Veneto.
Dice Edmund Glaise von Horstenau nel libro «Die Katastrophe» («La catastrofe»):
«L’esercito imperial-regio aveva cessato di essere uno strumento diga..... Non si può dire che esso fosse ancora operativo nel vero senso della parola: lo si poteva capire già dalle gravi carenze dell’apparato di comando e di collegamento. La smobilitazione era stata frutto di iniziative spontanee, che avevano ben presto coinvolto anche i vertici più alti...».
Il 31 ottobre 1918, il Leone dell’Isonzo fu costretto dagli eventi a trasferire il quartier generale a Velden, sul lago di Wort; egli chiedeva:
«E’ ancora compito dell’esercito combattere contro l’Italia, o è più importante soccorrere il resto del territorio nazionale e riportare le truppe in patria?»
Il comando supremo ricercava ormai, ad ogni costo, una soluzione pacifica del conflitto; ed il 3 novembre - alle 2 del mattino - giunse ai soldati austro-ungarici l’ordine di cessare le ostilità, essendo stato stipulato l’armistizio (che il comando italiano ritenne invece di far entrare in vigore appena dal 4 novembre: pertanto, tutti i soldati austro-ungarici raggiunti in quel lasso di tempo vennero fatti prigionieri, a guerra finita in realtà).
Boroevič fece un tentativo estremo per salvare la monarchia asburgica, tentando di conferire con l’imperatore Carlo: dietro suo ordine, egli avrebbe occupato Vienna - con le truppe fedeli - nel giro di 24 ore...
Una simile iniziativa avrebbe probabilmente mutato il corso della Storia, impedendo la dissoluzione dell’Impero.
Ma Carlo I. scelse di evitare ulteriori scontri e violenze, anche contro gli stessi interessi degli Asburgo: tutto era ormai finito.
Svetozar Boroevič trascorse gli ultimi mesi di vita
- insieme alla moglie - nell’indigenza, dimenticato da tutti; ma egli sopportò il suo amaro destino con grande dignità, abituato com’era (sin da giovane) ad affrontare con coraggio ogni avversità.
Mori di apoplessia il 23 maggio 1920; i suoi resti mortali furono traslati dopo qualche mese a Vienna, dove l’ex imperatore gli aveva dedicato un monumento commemorativo, sotto le arcate del cimitero centrale.
Al termine della «Grande guerra», l’occupazione militare italiana del Litorale adriatico (con l’insediamento del generale Petitti di Roreto a capo del R. Governatorato della Venezia Giulia) costituì il preannuncio di un’altra catastrofe, in special modo per gli Sloveni ed i Croati: infatti, in base al trattato di Rapallo (5 gennaio 1921) circa un quarto dell’intero popolo sloveno (350 mila anime) venne annesso al Regno d’Italia, insieme a 200 mila Croati.
Fu minacciata la sopravvivenza stessa degli Slavi in quanto tali: l’Italia fascista ne progettò l’annientamento, inibendone la lingua, la cultura, la nazionalità; ma con ciò, il regime littorio seminò odio e distruzione, che si sarebbero in seguito ritorti indiscriminatamente contro tutto ciò che era «italiano»; non a caso, in un qualche testo autorevole - seppur non recentìssimo - sta scritto: “Chi semina vento, raccoglie tempesta. . .”
Il progetto di assimilazione forzosa e snazionalizzazione della componente slovena e croata della popolazione del Litorale adriatico fu ben chiaro a Trieste già nel periodo in cui la Venezia Giulia era occupata militarmente: il 13 luglio 1920, i fascisti incendiarono la Casa della cultura slovena (il Narodni dom), in cui avevano la propria sede le principali organizzazioni slovene, il teatro, l’istituto di credito e l’Hotel Balkan; e nei giorni successivi, le scorri-bande fasciste si accanirono contro le sedi slovene nei villaggi del Carso e quelle croate in Istria.
Tali azioni criminose furono perpetrate grazie alla connivenza di chi avrebbe dovuto garantire il rispetto della legalità.
Sergio Pipan
DOM 1995