La fuga dalla guerra

A ottant'anni dall'ingresso dell'Italia nella prima guerra momdiale.
Un volume che parla di renitenza, dell'autolesionismo, della diserzione e della giustizia militare
Sull’ultimo numero del Dom abbiamo presentato un libro dedicato alla 1. guerra mondiale scritto da uno sloveno (Vasja Klavora, Koraki skozi meglo, 1994).
Questa volta presentiamo una pubblicazione che raccoglie dieci contributi di altrettanti autori italiani i quali trattano una tematica piuttosto «delicata» ma alquanto istruttiva.

«1914 - 1918 Scampare la guerra» affronta infatti il tema della renitenza, dell’autolesionismo, della fuga dalla guerra e dalla giustizia militare nella Grande Guerra.

«Da alcuni decenni - leggiamo all’interno della sovracopertina - l’analisi storiografica ha reso giustizia alla complessità dell’evento prima guerra mon­diale, ponendo nel loro giusto risalto anche argomenti un tem­po considerati «scabrosi», come ad esempio il tema della diser­zione, dell’autolesionismo, della «fuga» dalla guerra (...).

Sul Carso, come sugli altri campi di battaglia, infatti, incon­triamo i soldati di fronte alla comune paura della guerra, l’istinto di sopravvivenza in lot­ta con l’obbedienza alla discipli­na militare, gli aspetti tragici ed ironici di innumerevoli fughe impossibili».

La pubblicazione è dotata di una ricchissima biblio­grafia che consente al lettore di approfondire ulteriormente i vari aspetti del fenomeno diser­zione e giustizia militare.
Si tratta di un libro essenzial­mente «pacifista» che tratta gli aspetti più (dis)umani della guerra ponendosi dalla parte dei soldati cercando di comprender­ne gli atteggiamenti e le scelte alle volte poco «eroiche».

La materia, trattata nel libro, era da tempo oggetto di ricerche e sta­di da parte degli addetti ai lavori le cui conclusioni ed analisi non arrivavano però al grande pub­blico e non entravano nel circui­to dei mass-media o nell’ambito della scuola.

In evidenza sono stati messi finora soltanto i lati «belli» (si fa per dire) di quella «inutile strage» mentre si ignorava o si tentava ai coprire con un velo pietoso gli aspetti «brutti» o meno simpatici di quella guerra per non «scandalizzare» gli ex combattenti e per non «offende­re» (?!) la memoria dei caduti.

Oggi i tempi sono mutati e la distanza di tempo che ci separa dalla 1. guerra mondiale consen­te di studiare e valutare con distacco, obiettività e soprattutto spassionatamente certi aspetti poco edificanti di quel conflitto che tanti lutti e tanto dolore ha provocato anche alle nostre popolazioni.

Il libro citato fa parte della collana «I quaderni del Territo­rio» (n. 11,1994) e raccoglie pra­ticamente gli Atti di un semina­rio di studio organizzato a Fogliano Redipuglia il 13/14/15 dicembre 1990 - a cura di Lucio Fabi - dal Centro culturale pub­blico polivalente di Ronchi dei Legionari con la collaborazione dell’ Amministrazione provin­ciale di Gorizia e del Comune di Fogliano Redipuglia.

Riportiamo dal libro alcuni dati riguardanti il fenomeno del­la diserzione e della indisciplina militare:
«470.000 processi per renitenza alla chiamata,
di cui 370.000 a carico di cittadini ita­liani dimoranti all’estero.
400.000 processi per reati com­messi da soldati, operai milita­rizzati e borghesi.
4.000 condan­ne a morte nei confronti di sol­dati disertori e traditori,
750 del­le quali eseguite.

Più di 15.000 ergastoli, altrettante lunghe condanne e un numero imprecisato di procedi­menti in corso o in riesame alla fine del conflitto che imposero al governo, pena la paralisi del sistema giudiziario italiano e la carcerazione di tantissimi redu­ci, il varo di un’ampia amnistia (la cosiddetta amnistia per i disertori) che portò a circa 40.000 il numero complessivo degli amnistiati,
mentre 20.000 rimasero in carcere ed altrettanti non rinunciarono alla latitanza (...).

Degli oltre 170.000 milita­ri condannati dai vari tribunali militari nel corso del conflitto, più di 100.000 vennero ricono­sciuti disertori, mentre in un numero quasi corrispondente di casi la stessa accusa non poté essere provata» (pagg. 9-10).
Secondo le stime fatte da un esperto, «circa il sei per cento dei soldati dell’esercito regio (stimato complessivamente intorno ai cinque milioni di uomini) fu oggetto di denunzia ai tribunali militari».

Le 130 pagine del testo ridi­mensionano automaticamente la retorica patriottarda, l’esaltazio­ne acritica della «vittoria», dei miti e dei luoghi comuni che siamo stati abituati ad ascoltare fino a pochi anni fa in occasione di cerimonie commemorative.
La verità è che quella guerra, imposta al popolo italiano dai politici e dal grande capitale, non trovava grandi motivazioni ideali presso i soldati e la «fuga» dalla guerra, almeno fino alla disfatta di Caporetto del 1917, era del tutto comprensibi­le.
Interessante il giudizio quali­ficato e al di sopra di ogni sospetto sui sentimenti dei sol­dati italiani rispetto alle necessità del combattimento di Benito Mussolini il quale, nel suo Dia­rio, rileva che su 250 uomini - prendendo come campione la forza di una compagnia - soltan­to il dieci per cento, in gran par­te professionisti, volontari, arti­giani «sentono le ragioni della guerra e la combattono con entusiasmo».

Un altro dieci per cento, costituito da emigranti richiama­ti in possesso di una maggiore esperienza per aver viaggiato e sostenuto prove più difficili, sono considerati «soldati ottimi sotto ogni aspetto».
Un venti per cento di soldati «giovani» fan­no, sempre secondo Mussolini, la guerra «volentieri», animati dallo spirito d’avventura.
Il grosso, circa il quaranta per cen­to, è costituito da individui che sarebbero stati volentieri a casa ma che avevano accettato la chiamata alle armi e la necessità di combattere «senza discutere».

Infine un quindici per cento è coperto da «individui indefini­bili», valorosi o al contrario vigliacchi a seconda delle circo­stanze, mentre l’ultimo cinque per cento è costituito da «refrat­tari», «incoscienti» e «canaglie che non avevano il coraggio di rivelarsi per paura del codice militare» (pag. 17).

Alla luce di queste motivazioni e con queste premesse la disfatta di Caporetto del 1917 era dunque un evento del tutto prevedibile e inevitabile.
(bz). DOM 1995
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