LA RESISTENZA

La resistenza fu guerra di popolo: non di soldati, ma di uomini, che combatterono per i grandi ideali di democrazia e di giustizia, per i quali offrirono la vita. Il loro sacrificio non deve venir dimenticato.

Cinquant'anni fa la fine di un incubo.

Il 25 aprile 1995 ricorre il 50° anniversario della Liberazione.

I valori, i propositi, le speranze che generarono allora le scelte del popolo italiano e dettero vita appunto al grande moto di liberazione debbono costituire oggetto di riflessione per tutti noi, ma specialmente per voi giovani, nuove generazioni. Proprio quei valori sono alla base dei principi espressi nella nostra Costituzione, che rappresenta per tutti i cittadini un fondamentale punto di riferimento e che ha origine dalla Resistenza. Essa fu guerra di popolo: non di soldati, ma di uomini, che combatterono per i grandi ideali di democrazia e di giustizia, per i quali tanto offrirono la vita. Il loro sacrificio non deve venir dimenticato, ma vivere nel ricordo ed essere tramandato come esempio di dedizione e di fedeltà.

A noi educatori spetta il compito di favorire la crescita educativa di voi giovani anche attraverso la proposizione dei valori che alla Resistenza facciano riferimento, come quelli che conducono alla formazione di persone libere e democratiche. Dobbiamo farvi comprendere che la conquista dei principi di libertà, di eguaglianza, di democrazia su cui fonda la Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, non può essere separata dai valori di pacifica convivenza e di tolleranza reciproca, che ne costituiscono imprescindibile presupposto. Dobbiamo alimentare la cultura della pace e consolidare un nuovo spirito di impegno e un desiderio di solidarietà. Ma è necessario anche rinnovare il senso unitario che ogni popolo civile deve saper riconoscere in se stesso, analizzando vittorie e sconfitte, disponendosi a migliorare sempre e a non ripetere gli sbagli del passato.

Per tutti noi adulti, ma soprattutto per voi ragazzi che avete la immensa fortuna di vivere in pace e di non aver mai conosciuto gli orrore della guerra, il 25 aprile faccia nascere e crescere una decisa fermezza nella difesa del diritto universale alla giustizia e alla pace nella libertà per tutti gli uomini.

il Preside

Perché vogliamo ricordare.

Sono ormai passati cinquant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale che ha portato morte e distruzione e dalla Liberazione. E' una ricorrenza importante: per meglio ricordarla e onorarla abbiamo svolto questo breve lavoro che ci ha appassionato e coinvolto.

Abbiamo raccolto o rielaborato interviste a partigiani o comunque a uomini che hanno vissuto in prima persona l'esperienza della guerra: con immediatezza ed evidenza abbiamo colto la paura della gente, la disperazione, l'insicurezza della vita, l'orrore della violenza e dell'occupazione nazista.

Eppure ancora oggi esistono persone che si ispirano, perlomeno nella simbologia usata, agli ideali nazisti e razzisti. Andando in giro per le Valli ci è capitato ad esempio di trovare squallide scritte come "Abbasso gli Ebrei", "Ne abbiamo bruciati pochi", e cartelli stradali su cui qualcuno ha cancellato il toponimo sloveno con una svastica, simbolo che dovrebbe far inorridire. Perché accade questo? Noi crediamo che dipenda tutto dalla mancanza di conoscenza della storia e vogliamo con questo modesto lavoro dare un contributo a mantenere viva la MEMORIA.

Dino Rossi

8 settembre l'armistizio, il crollo del fascismo

Nella primavera del 1943 i fascismo era in piena crisi. L'istintiva ripugnanza degli italiani per l'alleato nazista, il disastro della campagna di Russia, la deficienze del nostro apparato bellico, la perdita delle Colonie, i disagi provocati dalla grave situazione alimentare, i massicci bombardamenti: tutto questo aveva allontanato il paese dal regime e gli italiani da Mussolini. Lo sbarco in Sicilia degli angloamericani il 9 luglio 1943 e il bombardamento di Roma aggravarono la sensazione dell'inevitabilità della sconfitta, una sensazione che serpeggiava tra gli ufficiali dell'esercito, tra gli stessi gerarchi fascisti e nell'ambiente di Corte. Così, il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo approvava a larga maggioranza un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini cercando di scaricare su di lui tutte le responsabilità del disastro. Vittorio Emanuele III destituì Mussolini dalla carica di Capo del Governo, lo fece arrestare e lo sostituì con il generale Badoglio.

Per tagliare ogni ponte col fascismo, questi liberò i detenuti politici, abrogò le leggi razziali che erano state emanate contro gli ebrei fin dal 1938 e sciolse tutte le istituzioni fasciste. La Germania capì subito che gli avvenimenti stavano prendendo una piega pericolosa. Badoglio intanto trattava in segreto con gli alleati le condizioni di una pace separata. L'armistizio, firmato il 5 settembre 1943, fu annunciato l'8 settembre 1943, nello stesso momento in cui le forze alleate sbarcavano a Salerno. In seguito a questo, l'esercito italiano si trovò abbandonato a se stesso e senza istruzioni, mentre Badoglio e il Re si rifugiarono al Sud sotto la protezione degli Angloamericani.

Le nostre divisioni furono facilmente disarmate dai tedeschi e la nostra penisola rimase divisa in due: la parte meridionale liberata dagli alleati e la parte centrosettentrionale occupata dalla forze tedesche. Qui numerosi gruppi di persone si diedero alla guerra partigiana. Intanto Hitler, deciso a tenere sotto controllo la situazione italiana, liberò Mussolini il 12.9.1943 da Campo Imperatore dove era tenuto prigioniero. Il fascismo tornò così al potere, forte della protezione dell'alleato germanico; il 23 settembre Mussolini organizzò un nuovo governo fascista con capitale Salò: era la cosiddetta Repubblica di Salò. L'8 settembre 1943 è una data importante perché inizia anche nelle Valli la lotta partigiana.

In Iugoslavia essa era nata molto tempo prima in particolare in Slovenia, subito dopo l'occupazione italiana della provincia di Lubiana nel 1941. Il riferimento alla guerra di liberazione slovena è importante, in quanto il movimento partigiano nelle Valli e nel Friuli, almeno all'inizio, si appoggia a quello sloveno.

L'8 settembre segna, come si è già visto, l'armistizio dell'Italia e il conseguente sbando dell'esercito italiano, data la mancanza di ordini precisi dall'alto. I militari pensano solo a ritornare alle proprie case, consegnando le armi e le divise a chiunque. Il movimento partigiano approfitta del momento per tentare di organizzarsi. Anche nelle Valli esso si sviluppa rapidamente. In particolare il 15 settembre si costituisce a Faedis il battaglione della Garibaldi e nelle Valli il battaglione Pisacane.

Subito dopo l'8 settembre l'Italia viene invasa dai Tedeschi, particolarmente interessati alla nostra zona in quanto di grande importanza strategica, poiché attraverso di essa passavano gran parte dei rifornimenti tra il Reich e l'Italia. Le forze tedesche riuscirono all'inizio ad occupare soltanto i centri più importanti, lasciando una grande zona libera entro la quale si svilupparono le formazioni partigiane. cit. da Brancati

Qui di seguito presentiamo la storia di uno di questi partigiani.

Inizia la lotta partigiana anche in Friuli

BUONO era il suo nome di battaglia

Per lui le campane a morto suonarono due volte a distanza di quarantotto anni. Il nome glielo diedero quando si arruolò nella formazione partigiana Garibaldi. Quando ci si arruolava in una formazione partigiana, infatti, veniva cambiato il nome; questo per proteggere la famiglia e in particolare i genitori contro rappresaglie nel caso si rimanesse uccisi in uno scontro coi tedeschi. I tedeschi non facevano prigionieri i partigiani: li uccidevano.

Gli avevano chiesto che nome voleva. Lui rispose che non gliene importava: uno qualsiasi gli andava bene. Allora il commissario politico disse: " Tu sembri una persona buona; perché non ti chiamiamo Buono?" Lui sorrise e acconsentì. Successe cinquant'anni fa, verso sera di una bella giornata del novembre 1944. Mia mamma era a casa quella sera, anche se , per ragioni di lavoro, non lo era quasi mai; era a caccia di pulci che aveva portato a casa dopo la sua ultima uscita (era ostetrica nel Comune di Pulfero); di pulci ne portava a casa da tutto il Comune, poi si dava da fare finché non le faceva fuori.

Mia zia era in stalla a mungere le mucche ed io cuocevo la polenta. Con la zia ci scambiavamo i lavori di casa e stalla, perché le mie due sorelle studiavano e mio fratello era in collegio.

La nostra mamma era vedova e con la sua professione, alla quale era molto affezionata, era molto occupata specialmente dopo l'armistizio del 1943. Il dottore, infatti, lo avevano portato via i tedeschi (morì a Dakau), così lei doveva aiutare tutti gli ammalati; la gente le fu riconoscente tanto che, quando raggiunse la pensione, la decorarono con la medaglia d'oro anche per i servizi resi al Comune durante il periodo bellico.

Dalla posizione che tenevo mentre cuocevo la polenta, ero rivolto verso l'unica finestra della cucina. La polenta era quasi cotta, quando un abbassamento della luce mi fece rivolgere lo sguardo verso la finestra. Vidi una persona incappottata, vestita in divisa inglese; sulla testa aveva il berretto con la stella rossa, calzava scarponi legati con vimini, teneva il braccio dietro la schiena, nella mano aveva uno di quei rivoltelloni in dotazione ai carabinieri. Riconobbi in lui mio cugino Buono. Mi recai subito alla porta e l'aprii. Mentre si avvicinava, gli chiesi da dove veniva e cosa gli era successo. Lui mi rispose che aveva tanta fame e che era molto stanco. Gli dissi di sedersi, misi un mescolo di polenta su un piatto e glielo porsi con un pezzo di formaggio; poi gridai alla mamma di venire subito in cucina. Lei rispose che voleva far fuori tutte le pulci prima di cena. Ripetei la domanda e lei, intuendo dalla mia voce che era successo qualcosa, venne giù subito. Alla vista di Buono esclamò: "Come ti sei conciato così!". E continuò: "E' pieno di pidocchi; porta subito il mastellone nel tinello e corri dai vicini a chiedere acqua calda" Mentre uscivo, entrava mia zia e al vedere suo nipote si commosse e incominciò a dargli il benvenuto e a sfamarlo.

Con l'acqua calda di due dei nostri vicini di casa, più la nostra, riempimmo la mastella. Quando Buono fu spogliato, mia mamma mi disse : "Metti tutti i suoi indumenti in un sacco e portali nel nostro campo più vicino. Così feci; li misi in un covone di canne di granoturco (passato l'inverno, quando era il momento per portare il covone a casa, i pidocchi erano ancora in buona salute, allora bruciai tutto il covone). A Buono, dopo lavato, versarono petrolio sulla testa e con un pettine fitto, gli pettinarono sia i pidocchi che le loro uova.

Lo portai a dormire con me nel nascondiglio. In quei giorni, infatti, non si dormiva mai a letto, perché tanto i tedeschi che i partigiani slavi potevano facilmente prelevarti facendo irruzione nel paese (successe parecchie volte) e se ti portavano via, era difficile che tu tornassi vivo.

Lui si addormentò subito, io invece rimasi sveglio a lungo, ansioso di sapere cosa gli era successo; anche la puzza di petrolio mi disturbava assai. Solo il giorno dopo mi raccontò tutto. Il suo Battaglione (non ricordo più se "Mameli" o "Pisacane", una volta o l'altra era appartenuto a tutti e due) partì dalla parte occidentale del fiume Isonzo. Dopo diversi giorni di marcia forzata, carichi di armi e munizioni (lui portava munizioni, per questo era armato solo di pistola) arrivarono nella Valle del Tagliamento, dove incominciarono ad attaccare i convogli tanto stradali che ferroviari, cercando di fermare o di rallentare il trasporto dei prigionieri italiani in Germania o il trasporto di vettovaglie. Rimasti a corto di munizioni, indietreggiarono verso le montagne a oriente per rifornirsi. Mentre stavano guadando un fiume caddero in un'imboscata dei tedeschi che li attaccarono. Ci fu un macello di Garibaldini. Buono mi raccontò: "Era buio pesto, si vedevano solo le fiammate delle armi; sentivo le pallottole fischiare e abbattersi nel terreno tutto intorno a me. Finiti gli spari, si sentiva solo il mormorio dell'acqua del fiume; il resto era un silenzio di morte. Cercai di allontanarmi dal luogo, all'inizio piano piano, poi sempre più svelto per allontanarmi il più possibile dal luogo prima dell'alba."

Dopo diversi giorni di cammino, scavalcando le montagne, sempre all'erta per non imbattersi nel nemico (in un primo tempo aveva intenzione di fermarsi a Platischis dove aveva conoscenti, ma una donna lo avvertì che c'erano i partigiani slavi nelle vicinanze) arrivò a casa nostra, che era la casa dei suoi nonni paterni. Buono, sebbene fosse solamente diciassettenne, aveva mani e piedi da gigante; per questo le sue scarpe erano a brandelli quando giunse da noi. Quando gli chiesi come mai non ne avesse preso un paio a qualche cadavere, lui mi rispose che ne provò parecchie, ma tutte erano troppo piccole per lui. Anche a casa nostra scarpe così grandi per lui non ce n'era, così che le donne gli cucirono un paio di pantofole (žekè) e poi, siccome allora era impossibile comperare scarpe, gli fecero fare un paio di zoccoli dal calzolaio.

Aveva avuto problemi anche col cappotto: quello che gli diedero al momento dell'arruolamento era troppo piccolo per lui. Per fortuna un altro partigiano ne aveva uno troppo grande, tanto che camminando in salita vi inciampava; così questi fu contento di fare lo scambio col cappotto di Buono.

In quei giorni nessuno osava usare la strada asfaltata, perché gli aerei alleati la pattugliavano e mitragliavano con le ventimillimetro le cui pallottole facevano nell'asfalto buchi da 10X20 cm.

I ragazzi giovani, siccome la nostra era terra di nessuno, dovevano stare nascosti in quanto un giorno c'erano i Tedeschi, un altro i Repubblichini italiani, poi i Cosacchi, i Garibaldini, quelli della Beneška Ceta, i Domobranci, gli Ustaše e di tanto in tanto anche quelli di Tito, così che nessuno osò andare ad avvertire i genitori di Buono, che abitavano a Dolegna del Collio, che lui era da noi. Il Comando della divisione Garibaldi che operava nella zona diede ai genitori di Buono la brutta notizia: loro figlio era rimasto ucciso in uno scontro bellico. I genitori avvertirono il parroco, il quale fece suonare le campane a morto ed un paio di giorni dopo fece anche una funzione da Requiem alla quale tutta la gente che poteva attendervi partecipò, perché la famiglia di Buono era molto stimata e ben vista tanto che, dopo la guerra, il padre di Buono fu sindaco di Dolegna del Collio per diversi anni. Una decina di giorni dopo questi avvenimenti, il padre si diede coraggio e si mise in bicicletta e venne da noi, a Tarcetta, per avvertirci della disgrazia.

Immaginarsi il pianto di gioia al trovare il figlio sano e salvo da noi. Era stato lo scambio dei cappotti a creare l'equivoco: uno dei caduti sotto il bavero del cappotto aveva scritto il nome Buono.

Fu deciso che Buono rimanesse da noi fino alla fine della guerra e così fu. Quando, finita la guerra, tornò a casa, la gente incontrandolo per strada sbarrava gli occhi credendo di vedere un fantasma; anzi taluni, specialmente fra i giovani, se la davano a gambe.

Buono emigrò in Canada e venne a Nanaimo dove abitava suo zio Toni e dove suo padre aveva lavorato per ben dieci anni (tra il 1911 e il 1921) nelle miniere di carbone. Cominciò a lavorare nei boschi in un primo tempo qui a Nanaimo, poi si trasferì a Kelsey Bay. In seguito sposò una ragazza dei suoi paesi e si stabilirono nel suo posto di lavoro (Sauward Kelsey Bay), dove nacquero loro due figlie. Lavorò nel bosco per trentotto anni. Sebbene il suo lavoro fosse assai pericoloso, ne uscì con infortuni minimi. A sessantacinque anni si pensionò (1992); lo stesso anno fu colto da inesorabile malattia e proprio alla fine dell'anno morì. Fu sotterrato il 4 gennaio 1993.

A Dolegna del Collio per lui furono suonate le campane e celebrata la messa da Requiem una seconda volta.

Il suo vero nome era Giuseppe (Joe) Specogna e tutti quelli che lo conobbero dicono che lui era davvero BUONO.

Suo cugino Audace

I partigiani tentarono di ostacolare l'occupazione tedesca delle Valli, e, a questo scopo, fecero saltare il 19 settembre tutti i ponti sul Natisone e sull'Alberone. Ma il 6 ottobre i tedeschi, forzato il blocco di Ponte S. Quirino, si attestarono nel paese di Merso Inferiore.

Verso la fine di ottobre arrivarono rinforzi tedeschi e iniziarono duri rastrellamenti nelle Valli che continuarono per tutto il mese di novembre e di dicembre. Dopo questi rastrellamenti i nazifascisti avevano saldamente in pugno la situazione e installarono presidi in tutti i centri più importanti delle Valli. I gruppi partigiani si dissolsero e rimasero solo pochi attivisti. Con la primavera del 1944, all'inizio della bella stagione, i partigiani sbandati iniziarono a riorganizzarsi; anzi, i giovani accorsero sempre più numerosi in montagna, accrescendo considerevolmente il peso delle formazioni partigiane. Inizia così un periodo nuovo, un tipo di guerriglia con azioni di stillicidio: oggi si attacca un camion, domani si cattura o si liquida una spia o militari isolati, ecc.

Questo provoca un'offensiva nemica che abbraccia l'intera Benecia e la Valle dell'Isonzo fra Plezzo e Tolmino.


Il racconto di Giulio venturini

E' un momento molto duro per chi vive nelle Valli del Natisone. Lo capiamo ascoltando le storie di Giulio Venturini.

(Ha eseguito l'intervista Oriana Flaibani, classe IIIC - Scuola Media Statale Dante Alighieri di S. Pietro al Natisone - anno scolastico 1990. Hanno rielaborato l'intervista Dino Rossi e Massimiliano Chiabai Cl. IIIB anno scolastico 1994-95)

Questo è un racconto, un ricordo di quanto succedeva nel periodo della guerra. Su tutti i fronti c'erano grandi battaglie, qui, nella nostra zona, c'erano partigiani, tedeschi, cosacchi. Io avevo diciassette anni. Un giorno mio padre, mio fratello ed io ci recammo alla postazione di S. Quirino con l'intenzione di avvertire i tedeschi e i repubblichini lì presenti che volevamo andare a raccogliere castagne sul Karkos (vicino al molino di Azzida). Il tedesco non capiva bene, ma mio papà, che da piccolo era stato in Germania, gli disse in tedesco: "Ich bauer" (io contadino). E ci lasciarono passare. Ma, mentre eravamo intenti a raccogliere le castagne, arrivò una pattuglia della Wermacht che stava eseguendo un rastrellamento nelle campagne di Azzida. Sceso dall'albero, mio padre gridò: "Abbiamo avvertito la postazione di S. Quirino"; ma un colpo lo ferì alla gamba sinistra e gli uscì sangue come da una fontanella.

Io mi precipitai giù dall'altro costone dove mi trovavo a raccogliere le castagne, sfilai la cinghia e legai la gamba del mio papà che era lì dolorante e privo di sensi. E lo chiamavo: "Papà, papà". Lui rinvenne e mi disse: "Grida in tedesco: nicht partizan, nicht partizan, arbeit ich bauer". Ma i tedeschi, non credendo che fossimo contadini, stavano per ammazzarci; una signora, però, (era sul posto perché l'avevano catturata) diede un calcio al mitragliatore e la scarica finì a terra. I tedeschi quasi la massacrarono a forza di pugni e di calci. Andò a finire così: io gridavo talmente forte che mi sentirono fino in paese e arrivarono il mugnaio, Cesare Pussini, e altri operai, passando l'acqua che pure in quei giorni era alta. Mio padre fu portato in ospedale. Durò un mese la sua degenza all'ospedale e proprio il giorno del suo ritorno a casa, la Wermacht e i repubblichini - ce n'erano a centinaia - circondarono Azzida e andavano a bussare alle porte, rompevano e ammazzavano.

Prima che arrivassero da noi - io avevo un fucile - mio padre mi disse: "Vai, nascondilo". Così lo coprii con un sacco e corsi nell'orto a nasconderlo tra le canne del granoturco. Ma poco dopo non so da dove fossero sbucati - mi sentii puntare il mitra alla schiena: "Bandito! Partigiano!" E mi fecero incrociare le mani e mi portarono in piazza dove c'erano altri paesani catturati. Erano stati presi mentre lavoravano. Qualcuno - chi sa chi e perché - aveva detto che eravamo partigiani. Ci misero in fila e un tedesco incominciò a contare: "Ein, zwei, ..." Non lo dimenticherò mai: io ero il dodicesimo! Dissero che ci avrebbero fucilati. Il nonzolo Giovanni ci invitò a pregare l'Atto di dolore. Vicino a me c'era il maestro Visentini (lui era veramente partigiano, ma non aveva con sé nessuno scritto compromettente, solamente la carta d'identità e il lasciapassare che dava la scuola). Aveva, per un incidente da giovane, la gamba dura che, per la paura, tremava. Io, a sentire quei battiti, mi misi a...ridere! Un tedesco mi venne vicino, mi mise la pistola sotto il mento e mi disse: "Perché ridi? Non hai paura della morte?" Ma io non capivo più niente: ero frastornato.

Arrivò un soldato repubblichino, uno di Merso di Sotto, e dopo averci osservati disse all'ufficiale: "Questi son tutti amici miei: questo è figlio di Giulio dell'osteria, questo è Giovanni che lavora nella cava di Cemur..." e fece tutti i nomi..."Se li ammazzate, ammazzate anche me". E, buttando a terra il fucile, si mise in fila con noi, aprendo la camicia nera. Arrivò in quel momento un altro repubblichino. Aveva un mitra e disse: "Chi è Giulio?". "Sono io", dissi. "Vieni ti sistemo io!" E gridò al tenente: "Questo qui me lo arrangio io. E' già un po' che lo cercavo". E mi portò fino a metà paese. Non mi informò che lo aveva mandato mio papà a liberarmi, come poi venni a sapere; mi disse solamente: "Tu scapperai e io ti sparerò". E io non sapevo cosa fare. Poi, in prossimità della fontana, mi misi a correre verso lo stradone sulla sinistra. Lui sparò un paio di colpi: mi sembrava che mi avessero trapassato il corpo! Correvo forte e in breve scavalcai le reti dell'orto e arrivai a casa. Sentii mio padre dire ai repubblichini che dormivano nel nostro granaio: "Se portano via mio figlio, io mi butto sotto l'autoblinda". Quando mi vide, ci abbracciammo. E quel giorno tutto finì bene.

Ovunque, quando passavano tedeschi e repubblichini, c'era paura, grande paura; tutti si chiudevano in casa, tutti avevano un loro nascondiglio. Solamente le vecchiette uscivano a prendere l'acqua nelle fontane lungo le strade per vedere che cosa stava succedendo.

Ce da aggiungere che nelle Valli c'erano anche, ad aggravare la situazione, molti Cosacchi. Essi erano dei russi che, in lotta con i bolscevichi, si erano alleati con i tedeschi e si trovavano in Friuli perché era stata loro promessa da questi una parte di terra friulana. Sentiamo che cosa ne dice ancora il nostro Venturini.

La zona era anche invasa dai Cosacchi. Ce n'erano molti a S. Leonardo e facevano i padroni, portavano via tutto. Tra i tanti, ricordo con chiarezza questo episodio. Una famiglia aveva ammazzato il maiale. Ma i Cosacchi arrivarono. Ne vidi uno correre dietro la padrona, una certa Miuta, e strapparle i salami e le salsicce che le penzolavano dal braccio. Portarono via tutto! Completata la razzia per il paese, tornarono a Scrutto ubriachi e ne combinarono di tutti i colori e sparavano, sparavano. Sparavano anche per paura che ci fossero i partigiani. Qui da noi c'erano infatti Osovani, Garibaldini, c'era la Beneška Ceta, c'era il IX Corpus: erano tanti. E noi eravamo tra l'incudine e il martello. In tutte le Valli c'erano cartelli con su scritto - in tedesco e in italiano - che la nostra zona era una zona di banditi.

Superato il duro inverno del '44-45, gli alleati sfondano la linea gotica e iniziano a dilagare in tutta la pianura padana. Anche da noi, nella primavera del 45, i tedeschi erano in ritirata. Sentiamo ancora Giulio Venturini.

Nel '45 i Tedeschi erano in ritirata. Ma non era facile per loro accettare la sconfitta, accettare l'idea che il Terzo Reich perdesse la guerra, forte com'era stato, tanto da aver invaso la Russia e tutta l'Europa. E si vendicavano in ogni maniera, dappertutto e su tutti, prendendosela persino con le donne e i bambini. Era febbraio o marzo (non è possibile; era invece sicuramente la fine di aprile). Tutti noi ragazzi ci riunimmo e, guidati dal tenente Michele Gubana, andammo a S. Pietro per disarmare i Repubblichini che si trovavano nel Convitto. Era la fine e anche loro lo avevano capito: senza batter ciglio ci consegnarono le armi, dichiarando che avrebbero combattuto con noi. Molti presero la via di Spignon per andare a occupare Cividale. Io ritornai a Azzida con il tenente Gubana e altri venti. I Cosacchi non volevano capire che la guerra stava per finire e continuavano a fare razzie. Dal ponte di Azzida gridavamo loro: "Arrendetevi, siamo della Osoppo, non vi faremo alcun male, sarete prigionieri e vi consegneremo agli Americani". Ma non valevano capire. Un cosacco sparò un colpo. Ma la nostra reazione li indusse a scappare e si rifugiarono in una vecchia osteria che si trovava nei pressi del bivio di Scrutto. I cosacchi erano in sedici e ben armati. Con noi c'era un italo-russo, Pietro Sittaro, venuto in Italia quando il Duce si era impegnato a dare, a tutti gli Italiani che volevano rimpatriare, una casa e un lavoro (infatti ad Azzida c'erano due, tre famiglie russe). Fu costui, avvicinatosi ai Cosacchi con un fazzoletto bianco sul fucile, a cercare di convincerli alla resa entro cinque minuti.

Il ten. Gubana ci dispose dietro il muro e ci ordinò anche di posizionare i nostri cappelli d'alpino su dei bastoni infissi in mezzo all'erba, in modo che sembrassero dei soldati. Eravamo solo in 22, ma sembravamo molti di più. Allora i Cosacchi si arresero. Se non l'avessero fatto, non so cosa sarebbe successo perché noi eravamo male armati: io ad esempio avevo solo un vecchio 91, due bombe balilla, sei colpi in canna e sei in tasca. Io, mio cognato e un repubblichino li portammo a S. Pietro, al Comando, dove si trovava un certo Romeo Bevilacqua. Ce ne stavamo andando, quando questi si accorse che un cosacco estraeva dallo stivale un pugnale. Richiamati, ritornammo e perquisendoli recuperammo tre pugnali. Sarebbero serviti, se non li avessimo trovati, per uccidere il nostro amico e scappare. Tornammo ad Azzida e poi a S. Leonardo, dove altri Cosacchi non volevano arrendersi e stavano scappando. Avevamo un cannoncino anticarro e il tenente Gubana, che lo sapeva adoperare, vedendoli andare verso Jainich, sparò un colpo che centrò il loro carro. Allora si arresero.

La sera era tutto calmo, ma eravamo all'erta e ci accordammo per fare turni di guardia. Controllavamo l'entrata del paese, il centro, la scalinata. Improvvisamente il silenzio fu rotto da un frastuono in lontananza: era la Wermacht che si ritirava verso Caporetto. Sparavano in un modo che faceva tremare la terra: sembrava che ci fosse il terremoto. Avevano le mitragliere da 20 mm., fischiavano pallottole in tutte le direzioni. Venivano anche verso Azzida. Noi allora, benché l'acqua fosse alta, scappammo di là dal fiume. Subito dopo arrivarono gli Inglesi che raggiunsero i Tedeschi a Ponte Vittorio. Noi poi andammo al ponte di Vernasso e vedemmo arrivare anche lì i Tedeschi inseguiti dagli Inglesi.

Nei giorni seguenti i Tedeschi, ormai prigionieri, facevano i bravi, e a Cividale li si vedeva andare qua e là con gli Americani, facendo vari servizi. Gli Americani ora dominavano e le loro divisioni avanzavano, venivano a mettere il campo anche nelle Valli: alcuni vicino alla cava di Vernasso, altri sotto Azzida. Noi ci avvicinavamo e parlavamo volentieri con loro che poi ci donavano scatolette, polli, minestrone, pasta, birra, cocacola... era una cosa da non credere.!

Poi venne l'ordine di consegnare le armi, così io misi in un sacco il mio vecchio 91 e le armi confiscate ai Cosacchi e li portai in caserma, di fronte al vecchio Comune.

Ancora oggi mi ritrovo con alcuni amici, ma ormai siamo rimasti in pochi, a parlare dei nostri ricordi.

Vediamo cosa ci racconta di quei giorni il papà di Elena Chiabudini, che, rimasto orfano di padre, si trovava nel Collegio di Rubignacco

La testimonianza di un ragazzo

Nel maggio del '45 i Tedeschi valevano dare battaglia, quindi noi bambini fummo portati in stanze sotterranee. Eravamo un gruppo di ragazzi, tutti eccitati per l'avvenimento, perchè ci sarebbe piaciuto vedere una vera battaglia. Qualcuno ci aveva anche detto che i Tedeschi avevano intenzione di prenderci come ostaggi nella ritirata. Ma quella notte non avvenne niente.

La mattina seguente, molto presto, arrivò Ottavio Valerio, il Capo-istitutore. Mi colpì il fatto che non avesse più la divisa di centurione: era vestito in borghese e aveva un fazzoletto tricolore intorno al collo. Ci rassicurò dicendoci di stare tranquilli: i tedeschi se ne erano andati.

Più tardi chiamarono mio fratello Luciano e me in portineria: lì ci aspettava il cugino Bruno, un partigiano. Era venuto ad accertarsi che stessimo bene, sollecitato da mia mamma molto preoccupata per noi, poiché le era giunta la voce che i tedeschi utilizzavano civili come ostaggi sui carri armati, per aprirsi la strada della ritirata, per non venir attaccati dai partigiani. Parlando più tardi con Valerio ebbi la conferma del rischio che avevamo corso, evitato perchè erano intervenuti accordi tra il tenente tedesco e il capo dei partigiani con la mediazione dello stesso Valerio e di mons. Petricig, canonico del Duomo di Cividale. In cambio della rinuncia ad usar ostaggi, ai tedeschi era stata assicurata una ritirata senza ostacoli.

Due giorni dopo un rombo incredibile: arrivarono i carriarmati americani! I primi 4-5 sfondarono il muro di cinta, poi entrarono di seguito gli altri, numerosissimi. L'area del Collegio diventò la sede della loro Divisione. Mi colpì molto il modo con cui gli Americani, appena giunti, scaldavano il cibo: ponevano sotto il tegamino una tavoletta di gas solidificato. Quel giorno ogni bambino trovò un blocco di pane bianco! E poi finalmente pasti regolari e abbondanti.

La liberazione di Cividale

Ecco come ha vissuto la liberazione di Cividale Audace (Efrem Specogna), partigiano della Osoppo.



Siccome uno ad uno ce ne stiamo andando nei prati della "Caccia Felice", prima di andarmene anch'io voglio chiarire certi fatti riguardo la liberazione di Cividale che da diversi sono stati presentati come a loro più favoriva. Questi, dal mio punto di vista, sono i fatti veri.

La data io non la ricordo più, però ricordo che nello stesso giorno fu ucciso il padrone della segheria di San Pietro. (Non venne ucciso ma solamente ferito il 1 maggio; morirà dopo qualche mese proprio a causa della grave ferita riportata allora - N.d.R..)

Nell'immediato pomeriggio una truppa tedesca, composta da circa duecento uomini, si incamminava da Mitri verso la Barbetta. Giunta al ponte del ruscello (il nome non lo ricordo, ma ce n'è uno solo tra Mitri e la Barbetta) furono fermati da un micidiale sbarramento di spari (mitraglie e mortai) provenienti dalla Caserma a ovest della strada e diretto da alpini repubblicani. I Tedeschi non persero tempo ad alzare bandiera bianca. Questi furono gli ultimi spari della Seconda Guerra Mondiale diretti contro nemici a Cividale. Poco prima di questi avvenimento una pattuglia della Beneška Četa si era avvicinata alla Barbetta (circa a trecento metri) e, siccome erano vestiti in divisa con bustina in testa, in un primo tempo li scambiammo per Tedeschi. Per fortuna un sottotenente repubblicano, comandante del plotone di Alpini, li riconobbe. Quelli della Beneška Četa, sentito il frastuono di spari vicino a Cividale, tornarono verso Sanguarzo.

Verso il tramonto ritornò la Beneška Ceta. Su nelle nostre Valli pioveva da matti; grandi nuvoloni si accatastavano anche a Cividale, quando avvistammo una colonna di armati avvicinarsi alla Barbetta e non ci sorprese il fatto di vedere che si trattava della Beneška Ceta: Sdraulic, da grande condottiero, montava un cavallo bianco, alla sua destra su un cavallo baio montava una donna (molti anni dopo mi fu detto trattarsi di sua sorella); lo seguiva un portabandiera (la bandiera era della Iugoslavia) con dietro i componenti della Ceta, una cinquantina o poco più. La Beneška Četa fu fermata dalla mia squadra che apparteneva al Battaglione Val Natisone, 7° Brigata Osoppo Friuli ed era composta da uno dei fratelli Saccu, da un certo Benito Marzuola di Rodda, da Mario Raccaro di Biacis, da un ragazzo di Stupizza di cui non ricordo il nome, da Ferruccio Zabrieszach di Tarcetta e da me pure di Tarcetta.

A questo punto, per fortuna, arrivarono i nostri comandanti con rinforzi su moto e camion, sapendo che non correva buon sangue fra le due formazioni, specialmente perché certi nostri amici, compreso il Zabrieszach, furono in passato maltrattati da individui della Ceta quando per forza furono obbligati ad arruolarsi nella Ceta dal loro comandante della formazione garibaldina a cui avevano appartenuto (alla prima opportunità poi loro tornarono tutti a casa). Ci fu dato ordine di andare via e di pernottare alla caserma degli alpini.

Chiedemmo il permesso di dare un'occhiata al centro di Cividale; il permesso ci fu accordato con l'ammonimento di stare attenti. Camminando verso Mitri notai un tedesco ucciso nell'ultima sparatoria (forse ce n'erano anche altri). Nelle vie di Cividale non c'era nemmeno un cane, non sventolava nessuna bandiera, nemmeno sul municipio. Arrivati qui, grossi goccioloni cominciarono a cadere. Giunti in piazza Adelaide Ristori ci piombò addosso un vero acquazzone e riparammo in un sottoportico sopra il quale abitava il prof. Cozzarolo. Quando lui seppe chi eravamo, mandò i suoi due figli a invitarci a salire in casa sua, dove ci diede qualcosa di caldo da bere. Presto la pioggia rallentò e noi ci avviammo verso la caserma. Per tutta Cividale fuori dalla case non c'era anima viva.

Cosa successe della Ceta da questo punto in poi non lo posso testimoniare di persona. Ci fu detto che quel giorno non fu loro permesso di entrare in Cividale; solo il giorno dopo li lasciarono entrare dalla parte occidentale del Natisone, in cambio dovevano garantire il rilascio dei mercanti di Pulfero, loro prigionieri da un paio di settimane.

Il giorno dopo gli Inglesi portarono con sé verso l'Austria una trentina di Cosacchi nostri prigionieri, raccolti nelle nostre Valli un paio di giorni prima. I prigionieri tedeschi invece rimasero nella caserma (circa trecento) e furono presi in consegna dagli Inglesi. Noi ci trasferimmo a Rubignacco. Tutti i componenti della mia squadra, dicianovenni come me, erano appartenuti a diverse formazioni partigiane; io solo a quella della Osoppo.

Audace (Efrem Specogna)

Cinquant'anni dopo!

Cinquant'anni sono passati!

Da che cosa?

Forse troppo pochi lo ricordano!

Eppure non è giusto procedere senza guardarsi alle spalle o farlo solo per rammentare soltanto ciò che di buono l'uomo ha fatto. Ciò che è successo non va dimenticato ed è per questo che noi abbiamo voluto proporre a tutte le classi questo nostro lavoro sulle Valli durante la Seconda Guerra mondiale.

E' stato un lavoro che a noi è piaciuto molto e quindi l'abbiamo svolto con entusiasmo. Si spera che quello che abbiamo realizzato vi entusiasmi come ha fatto con noi.

Ci siamo anche resi conto che sta diventando sempre più difficile trovare persone che a suo tempo sono state coinvolte nella guerra e che possono quindi raccontarci in prima persona le avventure da loro vissute.

Non tutte le interviste le abbiamo fatte noi personalmente: alcune sono state realizzate quattro anni fa da ex alunni della Scuola. Noi abbiamo rielaborato e reso più omogeneo il tutto, a volte anche mescolando notizie di differenti interviste.

Speriamo che questo nostro lavoro non sei inutile ma serva a non dimenticare gli avvenimenti, le avventure e le paure che questi superstiti della guerra ci hanno fornito.

Bisogna ricordare sempre i partigiani che hanno difeso le Valli rischiando la loro pelle e anche pensare che la nostra vita d'oggi è anche opera di coloro che nel passato sono morti per la libertà.

In ogni caso resta che la guerra è come una belva feroce: quando essa esce da gabbia fa strage di tutti, vincitori e vinti, perché tutti sono assaliti dalla sua ferocia. E inoltre bisogna pensare che nella guerra non ci sono solo uomini validi, autonomi e autosufficienti, ma anche vecchi e bambini innocenti.

Massimiliano Chiabai

Dal CHIACCHIERONE, giornale della Scuola Media di S. Pietro - n° 3, 1 maggio 1995

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