Il gesuita p. Antonio Banchig
«Io non avea fino allora veduta mai commozione sì grande»
Il gesuita p. Antonio Banchig (Tarcetta 1914 — Gorizia 1891) fu uno dei più noti ed apprezzati predicatori nella seconda metà dell’Ottocento nel vasto territorio della provincia veneta della Compagnia di Gesù, che si espendeva su buona parte dell’Italia settentrionale ed era presente nelle diocesi della costa dalmata.
Nell’estate del 1865 p. Banchig esercitò il ministero della predicazione delle missioni al popolo nelle Valli del Natisone, e precisamente nelle parrocchie di Drenchia e di San Pietro degli Slavi.
Il ritorno nella sua terra venne annunciato da p. Banchig in una lettera al provinciale dei gesuiti, p. Francesco Egano, datata il18 giugno a Trento, dove svolgeva la missione di superiore della «Missione del Tirolo»:
«Come le scrissi il dì 14 maggio, ho accettato in Friuli la missione di Drenchia, e domani dopo le due partirò per colà. V’è colà il Parroco di S. Pietro del Natisone (don Michele Muzzigh, ndr), che mandò il suo cappellano appositamente a Gorizia a pregarmi, e mi si è raccomandato per mezzo dell’Arcidiacono di Cividale Monsignor Tiossi, e qua m’ha scritto tre volte rinnovandomi la domanda per la missione nella sua parrocchia dal 6 al 16 luglio.
Non avendo qua per ora impegni urgenti, trattandosi di una parrocchia di 8.000 anime, e non potendo a motivo della lingua carniola (slovena, ndr) che si richiede trovarsi colà altro missionario, dietro l’autorizzazione avutane da V. R. penserei di fare un viaggio e due opere meritorie e salutari.
Non ho tuttavia data ancora risposta affermativa, ma se V. R. nulla ha in contrario la darò a voce martedì mattina nel mio passaggio per Drenchia.
Ho già qui disposte le cose in modo, che nessuno sconcerto e nessun ritardo agli altri impegni porterà la mia assenza fino al 18 luglio, nel quale giorno ritornerò».
La descrizioni delle due missioni nella Slavia sono uscite dalla penna dello stesso predicatore di Tarcetta e inserite nella cronaca della «Missione del Tirolo».
Ecco le note relative alla missione di Drenchia.
Fatta l’apertura la mattina del 21 giugno quella chiesa bastevole ad accogliere la gente del posto «divenne troppo angusta alla moltitudine de’ valligiani o de’ montanari, che pieni di fede ed avidi della divina parola, senza badare né a distanze, né a calori, né ad asprezze di vie, vi accorrevano da altre confinanati parrocchie delle due diocesi di Udine e di Gorizia. Benché io non parlassi bene quel dialetto carniolo - illirico, che colà si usa, e buona parte dell’udienza dovesse stare al di fuori, e il raccoglimento venire turbato ora dalla gran calca per cui il muoversi d’uno muovea qual’onda gli altri, ora da qualche individuo, che per la strettezza e pel caldo sveniva; tanta era nondimeno così generale, pressoché ad ogni predica, la commozione, che bisognava più del solito alzare la voce e fare pause per essere inteso.
Si trovavano a sera penitenti col digiuno naturale per le comunioni; ed altri, i quali dopo aver vegliata la notte e tutto il giorno aspettando inutilmente il loro turno, andavano a disgiunarsi alle 9 pomeridiane, per tornar da capo il dì seguente.
Essendo quella chiesa isolata sulla cima d’un monte e l’atmosfera a que’ dì variatissima, onde in uno stesso giorno facea sereno, piovea e soffiava vento, fu d’uopo astenersi dal predicare all’aperto.
Ma il dì della chiusura ad onta del tempo che minacciava, fu indispensabile l’uscir fuori.
Io non avea fino allora veduta mai commozione sì grande; onde fui costretto ad abbreviare i ricordi, perché la mia voce veniva soffocata dal pianto e dalle voci dell’uditorio».
In una breve lettera, datata a San Pietro il 7 luglio, parlò al provinciale del ministero nelle Valli del Natisone:
«[…] terminata la missione di Drenchia, e con faticoso viaggio a piedi disceso qui in S. Pietro, ho dovuto riposare due giorni, e stasera sono al secondo giorno di questa importante missione, la quale in vista della numerosa e dispersa popolazione durerà fino alla sera del 16.
La prima andò, grazie a Dio, prosperamente e con vivissima commozione di quel popolo, senza ostacoli esterni da vincere.
Questa ne presentò molti da parte del partito avverso alla buona causa, ma le loro astuzie e i loro maneggi sono andati a vuoto, e andranno».
San Pietro al Natisone, scriveva p. Banchig, «ridente e ricco villaggio non conta più di 600 individui, ma è capoluogo del distretto, sede dell’I. R. Commissariato e forma centro a 13 dipendenti cappellanie altre vicine, altre distanti quali 2, quali 3 ore, formanti insieme una parrocchia di 8000 anime, parrocchia già altre volte da me percorsa ne’ singoli luoghi con 8 missioni». Ma anche in queste tranquille borgate, lontane dai centri più importanti del Friuli, si stava diffondendo l’anticlericalismo massonico e l’avversione al Papa, il quale, come sovrano dello Stato pontificio, era ritenuto un ostacolo al processo di costruzione del Regno d’Italia.
«I villaggi della vasta parrocchia rimasero spopolati e deserti»
Era il mese di luglio del 1865 quando il gesuita p. Antonio Banchig di Tarcetta ritornò nella sua terra come affermato e ricercato predicatore, che con la sua fede granitica e la sua oratoria trascinante aveva mosso innumerevoli folle di fedeli nelle città e nei paesi della provincia veneta della Compagnia di Gesù.
Le avversità non lo facevano arretrare, tanto meno le velleità dei pochi anticlericali di San Pietro sostenuti da quelli di Cividale.
La loro esigua presenza, però, sarà il germe per il radicarsi di un’influente corrente antireligiosa che, con il pretesto della fedeltà al futuro Stato italiano, porrà in atto una possente campagna contro la lingua e la cultura slovene sostenute dai sacerdoti locali.
«Gli avversari al Papa, alla compagnia, alla pietà, e al presente ordine di cose non molto numerosi, ma molto astuti e potenti per la loro influenza — scriveva il gesuita di Tarcetta nella sua relazione sulla missione di San Pietro —, eransi dapprima adoperati con vari pretesti a dissuadere quell’ottimo Parroco dal chiamare un gesuita per la predicazione».
Gli anticlericali nascosero la loro avversione alle missioni con motivi apparentemente plausibili, ma anche con minacce e interventi intimidatori sui cappellani e sulla popolazione.
Avevano «rappresentato essere quello un tempo affatto inopportuno a motivo del gran caldo e de’ lavori ne’ prati e nei campi.
Più ancora: aveano tentato intimorirlo col fargli pervenire all’orecchio minacce di potenti apparecchiati a danno di lui e del missionario.
Erano financo riusciti a seminar discordie fra’ cappellani e ad alienarli da esso per modo, che questi vinti dall’inganno, dal timore e da umani riguardi aveano risoluto, e parecchi già concertato, di ricusare e l’assistenza e l’opera loro.
Da ultimo aveano qua e colà impegnati i loro adepti perché distornassero il popolo dal concorrere alle sacre funzioni, e quando queste ebbero principio, sparsero la voce che durerebbero due soli giorni».
Gli esponenti anticlericali, seppur in netta minoranza, avevano evidentemente in mano le leve per influenzare l’opinione pubblica e creare un clima di paura e di diffidenza.
«Ma Dio benedetto — sosteneva convinto p. Banchig — prese a proteggere l’opera sua, e tutte le arti e gli sforzi degli avversari tornarono a loro smacco e confusione.
La missione, cominciata il mattino del 6 luglio con numeroso uditorio, andò sempre più guadagnando terreno.
Ai parrocchiani si aggiunsero forestieri distanti fino a 6 ore di cammino, i quali la sera, chi nelle osterie e chi nelle case private, parcamente reficiatisi, faceano con edificazione del popolo e con avvilimento de’ tristi, echeggiare le case e le osterie di sacre canzoni.
Nelle tre feste, collocato il palco al fianco esterno della porta maggiore, mi vedeva sott’occhio dalle cinque alle sei mila persone, le quali, parte in chiesa, parte in sul piazzale, parte negli orti contigui e parte dalle finestre delle case vicine stavano attente alla divina parola.
Benché si fosse provveduto abbondevolmente, alle 3 pomeridiane mancò per due feste alla povera gente il pane, e quegli osti, che prima aveano brontolato contro il Parroco che chiamava il missionario perché vedeano andare a vuoto i loro progettati festini, ebbero a benedire essi pure la missione, che indirettamente senza strepito e senza disordine dava loro guadagno maggiore.
Chi fra essi avea sparlato di peggio, interpose il Parroco stesso per essere ascoltato in confessione dal missionario.
I cappellani, preso animo dal buon andamento delle cose, e quasi costretti a secondar la corrente del popolo fervoroso, vennero assidui, come alle prediche, così ad udire le confessioni.
La compunzione in molti era tale, che quantunque in que’ paesi per consuetudine antica ed approvata non si pratichino mai digiuni a stretto magro , e i più per le loro circostanze sieno obbligati dal digiuno, e i confessori si esibissero a commutare i tre digiuni voluti pel giubileo in altre pie opere, molti non accettavano la commutazione, altri benché settuagenari adempivano per prima la condizione del digiuno in cibi strettamente esuriali, altri gli aveano fatti o voleano farli a solo pane ed acqua».
Come a dire che i fedeli, mossi dalle parole del missionario, rinunciavano ai «privilegi» loro riconosciuti e praticavano il digiuno e l’astinenza in maniera stretta.
Il culmine della missione si ebbe con l’imponente processione penitenziale che il 12 luglio richiamò a San Pietro migliaia di fedeli da tutte le cappellanie della Valle del Natisone e dell’Alborna.
P. Banchig descrisse questo avvenimento con profonda partecipazione e soddisfazione.
«La scena più commovente, e la più solenne dimostrazione di fede si fu una processione di penitenza.
Annunziatasi questa pel dì 12 luglio e spiegato l’ordine da tenersi, in quella mattina i villaggi della vasta parrocchia, tranne un custode per casa, rimasero spopolati e deserti.
Assistettero alla predica divisi nelle loro classi gli uomini di fuori, le donne in chiesa, i fanciulli e le fanciulle ai due lati esterni.
Dopo quella sfilarono in processione quasi settemila persone.
Precedeano primi a quattro a quattro e colle mani giunte i giovanetti portando uno di essi innanzi il Crocifisso, altri due le torcie e seguiti da un Sacerdote in cotta e stola, sotto la cui direzione recitavano quando atti di fede, di speranza, di carità, di contrizione, quando cantavano lodi a Gesù ed a Maria. Dietro a’ giovanetti, precedute dal Crocifisso ed accompagnate da apposito cappellano, venivano coi medesimi canti le fanciulle.
A queste teneva dietro coll’ordine stesso la compagnia dei giovani in numero di 1200 circa, i quali cantavano un inno di penitenza interpolato ad atti di contrizione.
Seguivano nello stesso modo le donzelle, che oltrepassavano le 1400. Poi venivano i maritati, e da ultimo le maritate recitando col Sacerdote il S. Rosario e inframettendo essi pure ad ogni mistero un atto di pentimento.
Il cimitero distante un buon quarto di miglio era il termine designato.
Colà giunsero i fanciulli prima che gli uomini partissero dalla chiesa, e schieratisi intorno al recinto continuarono i canti e le preghiere.
Sopravvenuti i giovani si schierarono al di dentro a destra, le donzelle a sinistra, i maritati nel mezzo, le maritate avanti la porta d’ingresso continuando tutti i religiosi loro atti.
Non si può dire a parole la soave impressione che ognuno provava, al vedere quella sì numerosa e pia moltitudine, e a udir quella varietà ed intreccio di preci e di melodie che risuonavano da ogni parte.
Quando poi presi a dire dal palco le serie lezioni che ai vivi davano i morti, il gran bene che questi farebbero, se toccasse loro la grazia di trovarsi alla missione e al giubileo, le salutari raccomandazioni che per mia bocca indirizzavano i loro parenti ivi sepolti, e i suffragi che n’attendeano, le lagrime spuntarono su d’ogni ciglio.
Terminato il discorsetto e fattesi dal clero le solenni esequie, la lunga processione col medesimo ordine tornò per mezzo il paese alla chiesa con tale fervore di preghiere e di canti, che gl’impiegati dell’I. R. Commissariato attestarono al Parroco di non essere mai stati presenti a cosa più tenera e commovente.
Parecchi degli avversari, che da un colle appresso il cimitero aveano contemplato quello spettacolo ne stupirono, i più non osarono fiatar parola in contrario; anzi si lasciarono più d’una volta vedere a predica.
Uno di loro ne pianse e si convertì in difensore del missionario e della missione.
Giorgio Banchig