DINO MENICHINI

Io, Franco Braga, e Dino siamo stati per anni (fino al diploma Magistrale) compagni di scuola, compagni di banco, a Terni.


Una e_mail inaspettata - 04.06.06

Egregio Signore,
saltando da un sito all'altro mi sono imbattuto nelle dieci pagine dedicate alla poesia di Dino Menichini (Pagine provinciali La Panarie). Con grande piacere ho stampato quelle pagine contenenti poesie che non conoscevo.
Sento il dovere di dirLe il mio grazie per averle pubblicate. La ragione di ciò è di carattere sentimentale.
Io e Dino siamo stati per anni (fino al diploma Magistrale) compagni di scuola, compagni di banco, a Terni.
Mi ha emozionato il rivedere la sua grafia (Approda bianca estate) che conosco così bene, per la corrispondenza (rara purtroppo) che avemmo negli anni di sua vita.
Solo questo volevo dirLe. I vecchi, non so se Lei già lo sappia, vivono di questi brevi momenti di incontro con gli amici perduti anzitempo; mi compatisca.
Gradisca i miei più cordiali saluti.

Franco Braga

05.06.06

Carissimo Nino,
mi ha fatto enorme piacere la tua mail. Miracoli della tecnologia digitale. Può nascere una nuova amicizia sul frullo della tastiera? Se sì, allora grazie anche a questo evento.
Mi chiedi il permesso di pubblicare le mie parole accanto ai cenni biografici di Dino, disponi pure a tuo piacimento.
Se vuoi, puoi utilizzare anche la pagina che ti allego in calce alla presente e che scrissi, dopo la scomparsa di Dino, su richiesta della Signora Giani di Terni, per la rivista "Indagini". ...
(La pagina si trova anche su:)

www.ctrade.it/utenti/braga/index.html

D I N O

Parlare di Dino Menichini ad alcuni anni dalla sua scomparsa, è cosa difficile, anche se, in verità, urge dentro, come un dovere che si sente di dover compiere e a cui ci si sottrae tuttavia, giorno dopo giorno, anno dopo anno, perché sembra di non riuscire mai a trovare le parole giuste, perché sembra che non si riesca mai a trovare il filo dei ricordi nell'ordine più adatto a tracciare di lui un profilo che corrisponda alla verità.

Io e Dino ci eravamo conosciuti a scuola, alle Magistrali di Terni, quando ancora erano alloggiate nel vecchio Istituto Tecnico, a due passi da Piazza Tacito. Fummo amici. Subito.
Ci univa l'amore per lo studio.
C'erano meno svaghi e meno distrazioni sessant'anni fa; non la televisione, poco il cinema, pochissimo la radio; discoteca, Kawasaki, casuals, erano parole ancora da inventare.

Facevamo i compiti di latino e di matematica a casa, appena mangiato, poi eravamo già per il Corso a distribuirli generosamente alle compagne.
Non c'era neanche la parità dei sessi, allora, e la "cavalleria" era ancora di moda. Ci si ripagava con un sorriso o un complimento.

Dino era forte, specialmente in italiano; e scriveva poesie.

A quell'età - eravamo fra i quattordici e i diciott'anni - tutti scrivono poesie; anche adesso. Ma lui eccelleva.
Ovviamente non aveva ancora trovato il suo stile; poeti si nasce, forse, ma un conto è aver dentro tante cose stupende da dire, altro è disporre degli strumenti per farlo.
E lui li aveva e li stava affinando.

Io godevo in particolare della sua amicizia, tanto che per anni, anche quando gli eventi ci separarono, ebbi le sue primizie.
Autografe ai tempi di scuola, poi a stampa, quando cominciò a lavorare per il Messaggero Veneto di Udine e gli editori si interessarono di lui e i premi letterari cominciarono a decorare il suo nome.

Ma erano già i tempi in cui la guerra, ormai sofferta, aveva lasciato il posto alla ricerca della carriera, alla formazione della famiglia, alla vera e propria crescita come uomini.
A Terni ci eravamo vissuti da adolescenti, ragazzi, giovanotti, ci avevamo studiato, avevamo conseguito il "pezzo di carta".
E lì la guerra ci aveva fermato, cristallizzati in un macabro intermezzo in cui s'erano dolorosamente perduti i confini dell'avvenire, perché in esso era solo concesso sperare, ma nessuno poteva prevederne forma e scadenze.
La guerra ci divise, anche, e i ritorni non furono più possibili per tutti. Fu gran dono la sopravvivenza, ma solo i più fortunati poterono riprendere le fila dei discorsi interrotti, ripetendo gli stessi passi sulle stesse strade.
Ci disperdemmo e se ci ritrovammo fu solo a fatica, diversi; irrimediabilmente diversi. E altrove.

Così fu con Dino.
La corrispondenza ci permise qualche scambio di notizie a livello famigliare.
Così seppi che s'era sposato, che aveva avuto un figliolo, che suo padre, ex operaio delle Acciaierie di Terni, tornato in Friuli, s'era dato ad altra attività.

Cose di questo genere; uno scambio di auguri a Natale, come prova di autentico affetto, anche se di esso se ne andavano perdendo le radici, sempre più remote.
Vi sono casi in cui tempi e distanze cementano e nutrono i legami ed altri su cui il tempo depone la sua lieve polvere, lieve e impercettibile, giorno per giorno, ma insistente e cumulabile, come la neve, che al primo cominciare non ci si crede che riesca ad ammantare e seppellire ogni cosa, disperdendo i contorni di una realtà di cui non oseremmo mai dubitare.

Poi, improvvisa e imprecisa la notizia della sua morte.

E' vissuto troppo poco. Questa è la triste realtà.
Bruciato dal lavoro, direi, se rileggo le sue lettere, rare per la verità, ma accorate ed affettuose, scritte con tono fraterno.
Né avrebbe potuto essere diverso, perché null'altro ci aveva uniti fuori che l'amicizia fraterna.
Egli era diventato qualcuno, io ero rimasto nessuno.
Ma ciò non mi aveva mai addolorato, ché, anzi, mi arricchiva il pensiero di averlo per amico.

Alcuni anni prima della sua morte, mia moglie, io e l'ultimo dei nostri figlioli, ci eravamo recati a Udine per rivederlo e per fare ammenda dell'esserci lasciati sfuggire l'occasione di incontrarci per l'assegnazione di un premio letterario conferitogli a Bergamo, nelle cui vicinanze abitiamo.
Trovammo un uomo obeso, le dita ingiallite pesantemente dalle sigarette, che fumava ininterrottamente, un sospetto tremore nelle mani, con indosso una sorta di agitazione, come chi combatte perennemente in perdita con l'orologio.
La scuola, il giornale fino a notte inoltrata, poi il lavoro di lettura e di recensione, per case editrici, per Radio Trieste e per non so chi altri, poi la preparazione di nuove raccolte della sua attività poetica...affermava di dormire sì e no tre ore per notte.
Nessuno mi ha mai tolto l'impressione che il lavoro l'abbia ucciso, anche se la scienza può aver trovato un termine di patologia medica cui attribuire la sua fine.

"...Poi secondando il volere di Dio
un giorno salirmene anch'io
su un piccolo treno che va
carico di memorie bambine
e scendere al confine dell'eternità."

Così terminava una delle sue prime poesie, era forse il 1937 (sedici anni!).

Aveva una grafia elegante, personalissima e tuttavia chiarissima.
Talvolta scriveva a macchina, su cartoncini formato cartolina, che firmava regolarmente in modo autografo.
Conservo con gelosa cura quelle carte, quelle poesie, alcune delle quali sicuramente inedite, altre addirittura in prima stesura, tanto che sono arricchite di correzioni.
E le poche lettere che mi ha scritto in occasioni particolari.
E le sue raccolte di poesie, dove ha versato il suo amore per la sua terra friulana: vivevamo a Terni, ma quando ci si salutava ci si diceva "mandi!".
E m'insegnava. lui che era nato sul confine della Slovenia, di cui parlava correttamente la lingua, canzoncine e preghiere nella sua lingua materna. "Maria, pomosnizza cristianof, pribezalisce gresnicof, tolasnizza stalosnich..." mi suona ancora nelle orecchie l'Ave Maria, così come l'ho imparata da lui, così come si pronuncia, ché non ho la minima idea di come si scriva.

E l'amore per le sue donne, alcune appena conosciute, alcune perdute, morte, come Neera.

"E' un anno che dormi, Neera
lontano, nel tuo camposanto.
Scendeva dai colli leggera,
la bella stagione, che il pianto
coprì la tua immagine buona...".

Né saprei dire a quale corrente letteraria appartenesse. Amava i poeti che studiavamo a scuola e li percorse tutti.
Posseggo un poemetto, anch'esso inedito, di cinquantacinque sestine, in cui si risente Gozzano.
Lo scrisse per fissare in versi l'amore che finiva, per una fanciulla, una compagna di scuola della prima adolescenza.

"...Era quell'ora senza tempo e nome,
quell'ora che non sai s'è giorno o sera,
che tu apparisti, celere e leggera
venuta chi sa mai da dove e come.
Io so che mi colpiron le tue chiome
e quella tua beltà di primavera.
..."

E poi fu il tempo di D'Annunzio:

"...Ora la voce più pallida tace
e sembra un'oasi labiale di pace
che pigra discenda e s'adagi
sui tristi tuoi sogni randagi:
ora si scuote
percuote la cote
in ogni sua fibra
si libra
nell'aria che trema, destata
e pare una voce di fata
..."

E di Sergio Corazzini, da cui aveva rubato, oltre che qualche immagine, il tono disperato e struggente del decadentismo:

"...Non dirmi poeta...
non sono un fanciullo che canta alla vita.
Son l'ombra del Nulla che passa
e reca nel pugno una fiaccola accesa..."

Era il 1939. Poi Montale, poi Cardarelli, poi Ungaretti...

Quando fu "Menichini", il suo tempo si andava accorciando, all'insaputa di tutti.
A mano a mano che negli anni mi arrivavano le sue poesie, lo sentivo sempre più vicino, perché anch'io amavo ed amo la poesia, e nello stesso tempo sempre più lontano, perché l'amore per la sua terra, diventato fissazione, l'era venuto staccando a poco a poco da Terni, e il distacco non si era nutrito di rimpianti, ma di rancori.
Di lui già molti hanno cercato di capire, ma forse lui solo ha conosciuto le ragioni di questo rancore.
Basterebbe la poesia "A una città" che apre il suo libro "La cieca ostinazione", per darci un'idea di ciò:

"Ancora mi respinge la tua luce,
città degli anni giovani...
Alle tue vie, alle tue case fui
amico in volto; in cuore, forestiero...
E in essi non riesco a perdonarti
le rarissime gioie che mi hai dato".

Altrove, in una prosa dal titolo "Un ritorno impossibile", traspare la paura che questa città, che tuttavia l'aveva accolto e cresciuto nel calore dell'amicizia e dell'affetto, e che aveva un suo innegabile fascino, proprio perché in essa stava vivendo la sua giovinezza, mettesse in pericolo l'amore per il suo paese friulano, da cui egli caparbiamente non voleva staccarsi.
Peccato, ché ormai non lo sapremo mai più.

Siamo stati tanto amici, eppure di lui non seppi mai perché il suo soprannome fosse "Pillo", perché delle sue donne non ci parlasse mai, se non di quelle che, per il fatto di essere compagne di scuola non c'era bisogno di parlare e a cui raramente dedicava poesie.
Questo tipo bizzarro, che frequentava L'Oratorio del Duomo e non lo diceva, e nel crocchio delle amiche di classe si atteggiava ad ateo, tanto che le compagne che lo adoravano, e che lui con sufficiente distacco ignorava, facevano tridui e novene alla Madonna per la sua conversione!

O fu proprio l'amore per Neera, amata e morta lassù, nella valle del Natisone, a fargli sentire ostile questa città, a quei tempi lontana da Pulfero ore e ore di treno?
Perché forse si confonde nell'intimo del nostro animo l'amore per le persone e per le cose. E il nostro vero mondo è là dov'è il nostro cuore.
Terni lo tratteneva perché suo padre era operaio all'Acciaieria, ma egli era lassù, dove tornava appena iniziavano le vacanze scolastiche.

L'abbiamo avuto compagno e amico, ma non l'abbiamo mai posseduto.
Ho letto ciò che si è scritto di lui e una cosa mi ha sorpreso, perché corrisponde alle mie stesse sensazioni.
Nella sua produzione poetica egli si rivolge spesso a una donna, o parla di una donna.
Ma di questa donna non viene mai fatto il nome e in ogni caso ne parla o le parla, come di qualcosa di perduto o di sempre inseguito e mai raggiunto.

Perché non Neera?
Perché non lei, l'unica di cui nel tristissimo ricordo della sua morte ha fatto il nome?

Chi può dire cosa può nascondersi nel cuore umano, tenendovelo chiuso per tutta una vita, malgrado persone e cose e luoghi e vicende vogliano sovrapporglisi?

Mi perdoni il lettore deluso che si fosse aspettato una critica letteraria sull'opera di Dino Menichini.
Quando leggo le poesie di Pillo mi rivedo con lui in un banco di scuola, o per il Corso Tacito, anche allora, come ora, salotto degli studenti verso sera, e lo ascolto parlare, con quella sua leggera balbuzie (più che balbettare, s'impuntava) e ripenso a Neera, che non conobbi mai e di cui egli mai mi parlò.

Solo mi diede quella poesia, autografa, vergata su una stretta striscia di carta, sfrido di tipografia, che si può avere in regalo, quando, studenti, non si hanno soldi per comperare carta buona.
Franco Braga
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