Don Giuseppe Drecogna
Negli ultimi numeri del Dom il decano di Caporetto, mons. Franc Rupnik, sulla base di una interessante documentazione inedita, ha ripercorso gli ultimi anni di vita di due sacerdoti sloveni che avevano abbandonato la forania di San Pietro al Natisone e si erano trasferiti nella diocesi di Gorizia sulla scia di aspre polemiche con i confratelli sloveni e con l’accusa di essere spie del regime fascista e di condurre vita sregolata.
Si tratta del vicario di San Volfango, don Giovanni Battista Dorbolò di Vernasso (1897 - 1945), e del cappellano di San Pietro, don Giuseppe Drecogna di Tribil Superiore (190l-1953).
Sulla figura e l’azione dei due sacerdoti nelle valli del Natisone si è soffermato a lungo Faustino Nazzi nel volume «Il Duce lo vuole» (Coop. ed. Lipa, S. Pietro 1995) nel contesto della complessa vicenda della proibizione della lingua slovena nella vita religiosa della Slavia Friulana culminata nel 1933 con l’intervento personale del Duce.
Dalle descrizioni di don Dorbolò e di don Drecogna fatte da Rùpnik e da Nazzi, condotte entrambe su documenti e testimonianze degne di fede, sembra quasi si tratti di persone diverse o con una doppia personalità.
Tolti dal contesto delle valli del Natisone, tormentate e divise dalla questione linguistica, i due sacerdoti svolgeranno il loro ministero nelle parrocchie slovene della diocesi di Gorzia e aderiranno attivamente al movimento di liberazione sloveno.
Ma vediamo in particolare l’attività dei due sacerdoti dopo aver abbandonato, nel 1934, le valli del Natisone.
Iniziamo da don Drecogna che ha avuto una condotta più lineare e una vicenda personale meno tormentata.
Nato nel 1899 a Tribil Superiore, era stato ordinato sacerdote nel 1927; svolse il suo primo e ultimo servizio pastorale nelle valli come cooperatore di mons. Giovanni Petricig a San Pietro.
Nei sette anni della sua permanenza nel capoluogo delle valli dimostrò il suo spirito indipendente e anticonformista; fu il primo ad usare la motocidetta (una Bianchi) e strinse una solida amicizia con il più irrequieto don Dorbolò.
Dopo sette anni abbandonò San Pietro tra le accuse dei confratelli di essere una spia del regime e il rimpianto dei fascisti locali.
Ivan Trinko in una lettera all’arcivescovo, mons. Nogara, bollerà don Drecogna con queste parole:
è «uno dei due preti nostri accaniti persecutori e calunniatori, nonché indisturbati perturbatori della pace, confidenti zelantissimi della polizia»,
mentre in un volantino i fascisti locali saluteranno
“la sua nobile e patriottica figura di apostolo della Religione cattolica e di sincero e fervente fascista.. .”
Nella diocesi di Gorizia (e qui inizia il racconto di Rupnik) don Drecogna ebbe il suo primo incarico nel 1936 come amministratore parrocchiale di Prvačina.
Qui svolse il suo ministero con zelo e la soddisfazione della gente.
Ancora oggi, ad oltre 40 anni dalla sua morte c'è gente che lo ricorda con gratitudine come persona buona, generosa che durante la guerra liberò dalla prigione molti uomini e difese la sua gente dagli attacchi dei soldati italiani; aiutava la gente nel lavoro dei campi e aveva l’hobby della caccia e dell’apicoltura.
Una signora del luogo in uno scritto ha confermato che don Drecogna aderì immediatamente al movimento di liberazione sloveno e che fu eletto nel comitato locale di Prvačina.
Ma nel 1947, poco prima dell’assegnazione della Zona B alla Jugoslavia, dovette rifugiarsi a Gorizia perché i partigiani comunisti lo minacciavano di morte.
Negli ultimi anni fu parroco a Zdravščina (Poggio Terza Armata).
Morì di cancro a Mossa il 14 febbraio 1951 ed è stato sepolto a Zdravščina.
In una lettera scritta in sloveno ai più fedeli parrocchiani di Prvačina, don Drecogna esprime la sua profonda amarezza per aver dovuto abbandonare la sua gente:
«Questa separazione è stata più dolorosa della morte! Scrive don Drecogna ― Mai più non sarò felice.
Ho dovuto andarmene via a causa delle minacce che ho ricevuto in questi ultimi mesi.
Il 4 agosto sono stato condannato in una riunione pubblica (questo vi è noto).
Il 15 agosto hanno affisso sulla porta di casa mia tre manifesti, su uno dei quali era scritto:
“Via i sacerdoti antipopolari”.
Allora ho deciso di adempiere il desiderio di quelli che desideravano la mia partenza.
E dal momento che da quel giorno le cose non sono cambiate e quei manifesti non sono stati smentiti ho tenuto fede alla promessa e me ne sono andato.
Per tutto il bene che mi avete dimostrato Dio ricompensi voi e tutta la gente buona, di cui ce n’è pur tanta.
G.B.
DOM 1995