Aquileia, il rifiuto di una disgregazione fra diversi
Pubblichiamo un brano dell’intervento che il prof. Alessio Persic ha tenuto alla tavola rotonda all’Abbazia di Rosazzo sul tema:
«Il paradigma di Aquileia. Segno e stimolo di collaborazione tra le chiese e di convivenza tra i popoli».
San Paolino aveva la responsabilità di un gregge molto diverso da questo ideale: nel medesimo territorio ecclesiastico i Longobardi, precedenti dominatori, sopportavano lividi e affranti la nuova signoria dei Franchi, mentre le popolazioni di vecchio sostrato, celto-latine, numericamente ancora maggioritarie, subivano con diffidenza sottomessa o ambiguo opportunismo i disagi del violento ricambio di potere ai vertici politico-sociali; insieme, da oriente era filtrata — per lo più quietamente — la presenza delle stirpi slovene, e già Paolino poteva contemplarne i fuochi solstiziali, la vigilia del Battista, alti sui monti che sovrastano Cividale.
Davanti alla Chiesa di Aquileia, allora guidata fermamente da Paolino, questa dunque fu ancora la sfida: «Non dividerci, pur radunati».
Non però il rifiuto di ormai anacronistiche e improbabili divisioni dottrinali, come era anche stato fino a non troppo tempo prima; il rifiuto, invece, della disgregazione di una convivenza fra diversi, che equivaleva all’affermazione di un progetto di conciliazione politica e morale realizzabile con le potenti risorse dell’amore teologico: la caritas. «Onde i prossimi in Dio come noi stessi / amare e, per il Cristo, anche i nemici».
La costanza di perseguire questo progetto, antico e nuovo, poiché riformulato originalmente alla scadenza di ogni trapasso epocale, fu il carisma della cristianità aquileiese.
Attraverso e oltre la singolare, rischiosa e irripetibile esperienza dello Stato Patriarcale, esso restò confermato: in Friuli i numerosi toponimi slavi, accanto a quelli germanici, e, ancora più, i cognomi familiari di analoga origine, attestano solo un esempio estremo di compenetrazione culturale, spinto alla totale assimilazione; la condivisa venerazione di molti santi ha pure un'appariscenza tanto evidente, che uno studio esteso all’intera antica giurisdizione diocesana di Aquileia potrebbe solo asseverare, mentre la devozione mariana non ha il suo modo esemplare e privilegiato di espressione in quello multilingue praticato nei santuari edificati sui crinali dei versanti etnici, Višarje - Luschari - Lussari, Madone di Mont - Stara gora - Castelmonte, Sveta Gora - Mont Sante - Monte Santo (ma anche se ci si addentra di più in terra slovena si può avere ancora la sorpresa, com’è successo a me in un pomeriggio di duro lavoro, di scoprire le pareti lapidee esterne del romito santuario di Sveta Marija Vitovska, sotto la Selva di Tarnova, istoriate di scritte devozionali settecentesche in lingua italiana ...).
E' tuttavia il sentimento collettivo di ciascun popolo a confermare soprattutto, di solito nei frangenti più drammatici delle vicende nazionali, la coscienza di appartenere a un insieme distinto per l’omogeneità di un convissuto storico profondamente interiorizzato, appunto perché inseparabile dal sedimento spirituale che ancora oggi configura in radice le idealità individuali e quotidiane.
Penso a Ivan Cankar (1876-1918), del cui romanzo «Martin Kačur» (1906) mio padre curò nel secondo dopoguerra una traduzione che nessun editore italiano si sognò allora di pubblicare: questo visionario cantore della Slovenia e dolente demistificatore della Mitteleuropa asburgica, aveva immaginata praticabile l’ipotesi di una unità politica degli Slavi meridionali; eppure aveva lucidamente riconosciuto:
«Siamo fratelli di sangue, siamo almeno cugini per quanto riguarda la lingua, ma per cultura, che è frutto di plurisecolare separato sviluppo, siamo molto più estranei l’uno all’altro di quanto possa essere estraneo il nostro contadino della Carniola al contadino tirolese o il vignaiolo goriziano a quello del Friuli».
Il disastro del regno iugoslavo e la dissoluzione — prevista infallibilmente già trent’anni fa anche da mia nonna, chiacchierando in cucina — della Iugoslavia comunista di Tito hanno dimostrato perfino tragicamente l’illusorietà storica di questa idea generosa, per certi aspetti forse profetica, ma in gran parte immotivata da fondamenti storici e spirituali.
Persic
DOM 15-04-2004