La processione del Corpus Domini a San Pietro
Scorrevano lacrime di gioia!
La ricostruzione della processione del Corpus Domini che si svolgeva a San Pietro 200 anni fa.
Canti, spari, di fucili e mortaretti, e un continuo scapmanottio accompagnava il lungo corteo in costume
Il settimanale Slovenska bče1a (L’ape carinziana) nei mesi di marzo-aprile 1853, pubblicava una corrispondenza da S. Pietro al Natisone scritta in lingua letteraria slovena d’epoca con talune espressioni dialettali che riguardava la processione del Corpus Domini.
Tale scritto è stato integralmente pubblicato su Dom, n.6 del 1981 a cura di B.Z, cui rimandiamo per tutti i dati tecnici e storici sull ‘autore (probabilmente don Pietro Podrecca) e le osservazioni inerenti.
Per i nostri lettori di lingua italiana, escludendo una breve parte introduttiva, abbiamo liberamente tradotto il testo, che riguarda la preziosa descrizione dei costumi indossati dai fedeli e della straordinaria, impressionante sequenza della processione del Cor
pus Domini come si svolgeva a S. Pietro al Natisone.
In base ad una credibile ricostruzione, la cerimonia descritta potrebbe risalire alla fine del 1700 e quindi a duecento anni fa.
Da questa descrizione si possono trarre numerosi spunti sul fastoso cerimoniale di questa manifestazione religiosa e popolare che accomunava le cappellanie della valle di San Pietro e di Savogna in un forte sentimento religioso e di appartenenza, e richiamava l’attenzione e la partecipazione delle popolazioni contermi.
Unendo forze, mezzi, buona volontà e passione, potremmo in qualche modo ricostruire questa memoria del passato contribuendo alla ricucitura del lacerato tessuto etnico e religioso così caro ai nostri antenati.
(a cura di L.C.)
Il giorno del Corpus Domini qui da noi è una delle feste più importanti di tutto l’anno ed i nostri antenati si premuravano di celebrarlo con la massima solennità ad essi consentita dalle circostanza; in tale giorno si potevano vedere in processione tutti i costumi popolari d’epoca.
Gli uomini ed i giovani indossavano la loro lunga giacchetta di panno pregiato le cui asole erano cucite con filo di seta azzurro o verde.
Il gilet poteva essere di colori diversi ed era ornato sul petto con orlature di seta.
I pantaloni, corti fino al ginocchio, erano di panno nero e tenninavano infilati sopra lunghe calze, ovviamente di lana, colorate in blu o rosso scarlatto, legate queste sotto il ginocchio con appropriati cordoncini intessuti anche con fili d’oro o d’argento.
Sopra le scarpe luccicavano vistose fibbie d’argento ed i cappelli, rotondi e di larghe tese, erano bordati con un nastro di velluto largo quattro dita fermato in una larga fibbia di lucente argento, con il terminale che sporgeva di alcuni centimetri sulle spalle oltre la tesa.
Al cappello era fissata con spille sul bordo posteriore una piccola ghirlanda di fiori profumati, mentre un solo fiore era infilato nel bordo anteriore del nastro di velluto.
I capelli scendevano sulle spalle e colui che li aveva più lunghi era degno di maggior considerazione.
Affinché tali capelli non stessero in disordine venivano accuratamente pettinati e raccolti in un pettine portato sempre in testa.
Le donne poi indossavano le loro rosse, azzurre o verdi gonne di seta, tutte pieghettate in lunghezza.
I corpetti erano in damasco e lungo le cuciture erano ornate di cordoncini dorati.
Pure le donne indossavano la giacchetta, lunga (20 liber brač)? e dalla nuca pendevano numerosi nastri di seta fino alla cintura.
La camicetta (piturina) era finemente pieghettata sul davanti, ricoperta a sua volta dal corpetto di damasco di vari colori, orlato d’oro.
Le calze erano sempre di lana scarlatta e sulle scarpe, avevano pure esse brillanti fibbie d’argento.
Ora non si vedono più attorno di questi costumi sebbene mia nonna ne conservi ancora uno con la massima cura.
Le donne portavano pure orecchini d’oro ed una croce d’oro appesa al collo mediante un nastro di velluto nero.
Il maggiore vanto e felicità degli uomini era quello di poter avere un fucile per sparare durante la processione del Corpus Domini.
Colui che ne era privo, si sentiva minorato, dimenticato ed emarginato.
Perciò cercava a tempo di procurarsene uno secondo la possibilità e le circostanze e quindi sotto il sole di mezzogiorno lo puliva, lubrificava e provava per assicurarne il buon funzionamento.
Già la sera precedente il clima era vivace in tutto il territorio. Presso ogni chiesa sui monti e lungo le valle si sentiva il lieto scompanottare assieme ai colpi di fucile, moschetto e schioppo, che era cosa dire.
Lungo il percorso che sarebbe stato attraversato della processione, da ambo i lati venivano piantate frasche ed alberetti da cui pendevano profumati mazzi e ghirlande di fiori di campo.
Il giorno dopo, già all’alba, campane e fucili annunciavano la gioia del momento.
Da tutte le parti scendevano i nostri Sloveni a valle confluendo verso la loro chiesa parrocchiale.
Alle 9 di mattina aveva imzio la sacra cerimonia.
Aprivano la processione le 18 croci d’argento ognuna delle quali del valore da 400 a 500 monete auree veneziane (1 moneta d’oro veneziana vale oltre 1 goldinar).
Seguivano quindi circa 100 bambini muniti di campanello che facevano squillare continuamente all’infuori della lettura del S. vangelo e della benedizione.
Dietro ad essi, a due a due, procedevano da 300 a 400 fucilieri con l’arma in spalla, ordinati in gruppi per paese o comunità.
Poi venivano i suonatori popolari con i loro strumenti (gosla); al loro seguito avanzavano i cantori, poi i sacerdoti con il Santissimo sacramento sovrastato dal baldacchino, sostenuto questo da quattro uomini appartenenti alle più note famiglie della zona.
Dietro il baldacchino c’erano i pubblici funzionari, poi ancora uomini a due a due, infine le donne.
Al termine del Pange lingua cantato dai sacerdoti, veniva nel nostro modo (gelit) eseguito il Sacris solemnis quindi i cantori prorompevano nel dialetto sloveno con il canto Praznik presvetega rješnega telesa (Festa del Santissimo).
Al termine di ogni strofa il motivo veniva ripreso coi loro strumenti dai suonatori, con effetto commovente.
Terminato essi, riprendevano i preti con un’altra strofa, a cui rispondeva il coro come precedentemente, quindi i suonatori e così via, seguivano le strofe e la processione fino al luogo fissato, ove c’era l’usanza di impartire la benedizione al popolo ed alla campagna.
Arrivati al posto stabilito tutti si arrestavano, presso il piccolo altare preparato per accogliere il Santissimo mentre il diacono cantava il S. Vangelo.
Il terreno attorno all’altare era cosparso di fiori ed in bell’ordine erano disposti cuscini sui quali si inginocchiavano i sacerdoti avanti il Santissimo sacramento.
All’inizio della lettura del Vangelo i fucilieri caricavano le loro armi, suonatori e campanelli zittivano, le campane sul campanile smettevano di suonare; il popolo ascoltava nel massimo silenzio la sola voce del diacono che cantava il Vangelo.
Al termine tutto il popolo si inginocchiava. v
Il parroco pronunciava le orazioni di rito ed alla prima parola della benedizione il più vicino fuciliere spara il primo colpo quale segnale per rendere onore al Santissimo.
Allora iniziava a sparare assieme il gruppo di fucilieri primo in processione, e cosi uno dopo l’altro fino all’ultimo gruppo.
In quell’istante riprendevano a suonare i campanelli, cui faceva eco sul campanile il gioioso scampanottare, i suonatori con i loro ritmi briosi e sui colli scoppiavano i mortaretti.
Un tale frastuono, tale rumore, tale fracasso si udiva allora, che tutta la valle era in ebollizione e su su, per i torrenti, per gli anfratti, rintronava come tuono in cielo, quando si scatena il finimondo.
Questo si ripeteva ad ogni benedizione, fino al ritorno in paese.
Ritornando qui la processione, i crociferi, ragazzi e fucilieri ricevevano ognuno due panetti da 1 centesimo ed anche del vino.
Aveva inizio quindi nella chiesa parrocchiale la celebrazione della messa con accompagnamento d’organo e con la benedizione aveva termine la sacra cerimonia.
Anche allora, fuori dalla chiesa, sparavano i fucilieri, suonavano i campanelli dei chierichetti nonché i mortaretti sul colle.
Il popolo in chiesa cantava a piena voce Častuli te (T’adoriamo) mentre l’organo si univa alle loro voci.
Mio Dio!
Il cuore di ogni cristiano partecipante era colpito e commosso ed a molti di essi scorrevano lacrime di gioia lungo il viso.
Quel giorno venivano a farci visita da tutte le parti i Friulani, impressionati dalla nostra tradizionale processione, osservavano con occhi sorpresi poiché simile cerimonia non era mai dato di vedere in Friuli.
Al termine del servizio religioso i nostri sloveni invadevano pacificamente le osterie per un pò di ristoro ed allegria, indi verso sera rientravano ai loro domicili e non si ha memoria che, sebbene fossero armati, sia mai successo qualche incidente, tanto serio e giudizioso era il loro comportamento.
Ed oggi come va?
I suonatori sono spariti (rakam zvizgat (=a fischiare ai gamberi)), cioè non si vedono più in processioni; pure i vecchi costumi sono scomparsi, sovrastati, spiacevole a dirsi, dalla moda friulana.
Dei fucili pure non c’è traccia ed ora gli anziani, che in gioventù se ne gloriavano, portandolo a spalla, reggono al loro posto durante la processione, un cero acceso.
Ai nostri sloveni appare che la attuale processione non sia più così solenne come ai vecchi tempi, non avendo più i loro amati fucili ed in quel giorno si sente fra la gente mormorare e maledire la nuova amministrazione pubblica che li ha disarmati.
Traduzione dallo sloveno di L. C. - da DOM 1994