Le iscrizioni venetiche

I simboli del popolo sloveno
Le iscrizioni della cultura venetica (databili intorno al VI-V secolo a.C.) sono le testimonianze più remote dell’antica lingua slovena.
Per far luce sulla connessione fra Veneti e Sloveni, occorre risalire alla preistoria, allorquando il gruppo protoslavo si sviluppò definitivamente nel territorio compreso tra l’Oder e la Vistola:
un ambito in cui fiorì - verso il 1500 a.C. - la civiltà di Lusazia.

Dalla loro sede originaria, i Lusaziani si spinsero successivamente in varie direzioni e portarono dovunque la nuova cultura:
la tarda età del bronzo (dal XIII all'VIII secolo a.C.) è nota in Europa come l’età dei campi d’urne e fu caratterizzata da un fenomeno vistoso, la diffusione pressoché generale del rito dell’incinerazione.
I defunti venivano bruciati, le loro ceneri erano deposte in urne e poi seppellite in necropoli; l’incinerazione aveva un significato religioso profondo, che scaturiva da una diversa concezione dell’Aldilà; essa veniva accompagnata da preghiere, affinché l’anima - purificata - potesse entrare nel «van»> celeste.

A partire dal 1300 a.C. circa, l’espansione della civiltà lusaziana fu eccezionale; le. necropoli d’ urne sono state rinvenute più frequentemente nell’Europa centrale, ma anche nella parte meridionale delle Alpi, presso i centri delle culture locali.

Le genti che diffusero la civiltà lusaziana sono note storicamente come Wendi, Venedi, cioè Veneti; per arrivare in Italia, essi seguirono l’antica via dell’ambra, che collegava le rive del Baltico con quelle dell’Adriatico; le Alpi dividono, ma consentono anche - soprattutto nel settore orientale - passaggi praticabili agevolmente (come la Porta di Lubiana).

L’origine protoslava dei Veneti adriatici fu sostenuta già più di cent’anni fa dallo studioso sloveno - stiriano Davorin Trstenjak; a conclusioni analoghe giunse pure l’antropologo Giuseppe Sergi; Henrik Tuma ha scoperto molte testimonianze nel campo della toponomastica, mentre Martin Žunkovič ha sostenuto coerentemente che gli Sloveni sono un popolo autoctono, stanziato da tempi remoti nell’ area in cui risiede ancora oggi.

Jožko Šavli, Matej Bor ed Ivan Tomažiàč hanno fornito - in epoca più recente - un rilevante apporto dal punto di vista storiografico, toponomastico e linguistico, divulgando i risultati delle loro ricerche nel libro
«I Veneti, progenitori dell’uomo europeo»
(edito a Vienna nel 1988).

La storiografia nazionale - tedesca ha ipotizzato (ancora verso la fine del secolo scorso) che l’insediamento degli Slavi nelle regioni dell’Alpe Adria sarebbe avvenuto a partire dal 568 d.C., allorché i Longobardi abbandonarono la Pannonia per dirigersi alla volta dell’Italia.
Tale supposizione - non confermata del resto da alcuna fonte storica - ignorava una realtà antecedente, la presenza delle genti venetiche protoslave (ossia slovenetiche) ancor prima del 1000 a.C. sia nell’area alpina che nella Padania.
Infatti, l’archeologia ha scoperto tracce di insediamenti umani appartenenti alla civiltà venetica dei Campi d’urne (e risalenti al 1200 a.C. circa) tanto a Ruše presso Maribor, quanto nei dintorni di Lubiana.

Il predominio dei Veneti si diffuse in forma pacifica:
ciò è comprensibile, se si considerano i grandi vantaggi portati ai nativi dalla nuova gente; la superiorità del loro sviluppo culturale, economico e spirituale, consentì notevoli miglioramenti, nell’agricoltura come anche nella lavorazione dei metalli.

Dall’area alpino - adriatica, i Veneti raggiunsero la Val Padana:
ed allora - verso il 1000 a.C. - una luce primaverile destò a nuova vita quelle regioni (esse giacevano da millenni come in letargo), con la fioritura della civiltà di Villanova, il cui ambito territoriale si estese dall’Emilia alla Toscana ed al Lazio settentrionale.

Verso l’800 a.C., tramontando l’impulso villanoviano, sorsero - quasi contemporaneamente nuove culture:
Golasecca (Val Padana superiore),
la etrusca (Toscana),
Este (Veneto, Friuli, Litorale e parte della Slovenia);
queste culture portano il segno inconfondibile della loro provenienza, le urne cinerarie.

Se dunque le migrazioni slave verso l’Alpe Adria e l’Italia settentrionale ebbero luogo già nella preistoria, la successiva venuta di altri Slavi nei Balcani (all’epoca della cosiddetta «migrazione dei popoli», verso la fine del V secolo d.C.) rappresentò soltanto l’ultima delle ondate, da cui emersero gli Slavi del sud:
Croati, Serbi, Macedoni e Bulgari.

A riprova della fondatezza di questa ipotesi, vediamo che gli storici ed i cronisti dell’alto Medioevo non parlano affatto di un qualche arrivo improvviso di genti slave nelle Alpi orientali a far data dall’anno 568, mentre invece testimoniano nei loro scritti che Veneti e sloveni venivano identificati come un medesimo popolo; l’abate Jona narra nella «Vita S. Columbani» che il monaco irlandese Colombano intendeva recarsi - intorno al 612 - nel territorio «Venetiorum qui et Sclavi dicuntur» («dei Veneti, che sono anche chiamati Slavi»); l’identica duplice denominazione «Sclavos coinomento Vinedos» («gli Slavi denominati Vinedi») compare in un documento del 623, il «Fredegarii Chronicon», e lo Stato sloveno nelle Alpi orientali (Korotan o Goratan, dalle radici slovene «kar» e «gora» e dal termine paleoariano «stan») viene citato nel 631 come “Marca Vinedorum” («la Marca dei Vinedi»).

HI UTU SVOVONICU S TRUMUSIATEI DONOM
(Tisti, ki si od Slovencev, k Trumuàžijadi z darom hodiš / tu che sei uno degli sloveni, vai da Trumuzijad con il dono):
in questa iscrizione cadorina c’è il nome con il quale i Veneti si chiamavano tra di loro, Slovonici (cioè Slovènci, «la gente che parla la stessa lingua», deriyando dal termine «slovo», «parola»).
Nella regione alpina, tante località, valli, fiumi e cime di montagne conservano ancora oggi gli originari nomi venetici, che rivelano rapporti assai stretti con la lingua slovena; e ciò vale anche per i centri abitati nella pianura e sulle sponde dell’Adriatico; lo stesso nome romano Tergeste (l’odierna Trieste) deriva dalla radice slovena «trg» (“cmercato”, «emporio») e dal suffisso venetico «-este», come in Ateste:
si tratta quindi di un toponimo, indicante la località in cui le genti slovenetiche praticavano il commercio, quando dei Romani non v’era ancora traccia sull’orbe terracqueo.

La continuità tra i Veneti adriatici e gli Sloveni è perciò un’ipotesi storiografica saldamente fondata, tanto sulle fonti altomedioevali scritte, quanto sulle risultanze archeologiche, toponomastiche e linguistiche più attuali; ed essa ci permette di considerare le iscrizioni venetiche come le testimonianze più remote dell’antica lingua slovena.

La loro decifrazione, che risale a pochi anni fa, è dovuta a Matej Bor (poeta e scrittore, filologo e membro dell’Accademia slovena delle scienze e delle arti); già in precedenza, esse furono raccolte e pubblicate dai venetologi Pellegrini, Prosdocimi e Fogolari; nessuno aveva però saputo tradurle in modo adeguato e convincente,non possedendo la «chiave» per la loro comprensione:
la conoscenza della lingua slovena.

Come si spiega la sorprendente somiglianza - nonostante siano trascorsi 2500 anni - tra il venetico e lo sloveno?
Con il fatto che gli Sloveni sono l’unico popolo ad aver conservato la lingua degli antenati venetici.

Molte delle iscrizioni - sono circa 270 - furono rinvenute ad Este (l’antica Ateste), nel santuario di Reitia, importante centro di culto in cui la popolazione -profondamente religiosa - si riuniva; i fedeli portavano i doni alla dea Reitia, affinchè le anime dei defunti fossero guidate nel viaggio estremo verso il «van»; possiamo constatarlo nelle iscrizioni
MEGO DONASTO SAJNATEJ REJTIJAI PORAI
(Jaz donašam šajnati Rejtiji mogočni / Io porto in dono alla splendida e potente Reitia) e
ME GO VIUGIJA DONASTO REJTIJAI
(Jaz ga sežigajoč darujem Rejtiji / Bruciandolo, porto il dono a Reitia).

Nella vicina località di Idrija pri Bači furono trovate nel 1850 alcune iscrizioni:
LYK ZEMELIN K S HAJI ČOS KA BI
(Praznik zemljin ko je, počivaj karkoli že bilo / Per la festa della terra, riposa, sia quel che sia);
ed il palindromo
LA HIVNAH V ROTAH - HATOR V HAN V1l-IAL
(tu izginil v rotah - kateri v ogenj vehnil / Qui annientato durante gli scongiuri - io nel fuoco precipitato).

A Potovje («un incrocio di varie strade»), il più grande centro di comunicazione dei Veneti (in seguito, i Romani lo chiamarono Patavium), su di una stele del V secolo a.C. è raffigurata una donna, che porge un’anatra ad un viaggiatore, forse il marito defunto; l’anatra - capace di muoversi in aria, acqua e terra - era ritenuta adatta per accompagnare l’anima nell’Aldilà; l’iscrizione dice
PUPTNEI JEGO RACO JEKUPETARIS (Popotniku njega raco popotujoč / Al viandante la sua anatra per il viaggio).

Durante il tragitto verso il passo di Monte Croce Carnico, che gli avrebbe dischiuso l’alta valle della Zila (nel Korotan), il viaggiatore si dissetava bevendo da una brocca; quella ritrovata a Valle di Cadore reca la scritta
EJ K GOLTANOS DO TOLO UDERAJ KANJEJ
(Ej ko goltneš do tu-le, udari po konjih / Ehi, quando ingurgiti fin qua, colpisci i cavalli).
Sostando - affaticato ed impaurito - in mezzo a boschi selvaggi e precipizi, egli imprimeva sulla roccia le invocazioni alla divinità, per scongiurare i pericoli:
BUG OŠA SO VIŠAD
(Bog obšel to višavo / Dio voglia venire su questa altura);
BOG TIŠEJ ZIJAD TO
(Bog utišaj zijat to [Dio, fai tacere questo baratro).

All’ambito slovenetico appartiene anche l’iscrizione di Škocjan (S. Canziano del Carso), del V secolo a.C.; essa si trova su di una brocca (o situla, ritrovata nel 1911) usata probabilmente per il vino; è un’esortazione augurale:
OSTI JAREJ (Ostani mlad / Rimani giovane).

Le testimonianze della cultura venetica oltrepassano l’area isontina e carsica, addentrandosi vieppiù nel cuore della Slovenia, come è attestato dal ritrovamento di numerose situle: esse costituiscono la principale espressione artistica dei Veneti; tra le più belle, quella di Vače (presso Litija, ad est di Lubiana).
A Negova poi (tra Maribor e Murska Sobota, nella Slovenia nord-orientale), sono stati rinvenuti parecchi elmi venetici, alcuni di essi recanti iscrizioni; una dice
HARIU GASTI TE I VAIJUL
(Haril goste ter tudi vojeval / Battè gli stranieri ed anche li scacciò).
Il fuoco aveva - nel rito dell’incinerazione - un significato simbolico catartico, giacchè distruggeva tutto il male accumulatosi nell’individuo durante la vita:
V OUGON TAJ VUGISON JAJ BRIGDINAJ JEGO
(V ogenj ta ugašen naj gredo brige njegove / In queste fuoco spento, se ne vadano le sue preoccupazioni);
V OUGON TAJ VI OUGON TNA DO NAS TO REI TI JAJ
(V ogenj tajn v ogenj tenj ob nas tu v raj ti pojdi / Nel fuoco dei segreti, nel fuoco delle ombre, qui accanto a noi parti per l’Aldilà).
La meta dell’anima era il «van», una regione lontana disperdentesi nel tempo:
JEGO VOLETIE MINOJ I U VAN TI JOJ
(Njegova volja mini in v van potuj / La sua volontà trapassi e viaggi nel van);
JEGO NE IRKAJ I U VAN TI NAJ (Njega ne jari in v van ti naj gre / Non inquietarlo e che vada nel van).

Le iscrizioni della civiltà venetica rappresentano un prezioso patrimonio linguistico; di ciò, ogni sloveno può andar fiero:
quanti sono infatti i popoli - tuttora vivi - che possano vantare così antichi monumenti della propria lingua come le iscrizioni slovenetiche?
Sergio Pipan
DOM - n.11 - 1995
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