I kazoni di Cicigolis

Čebudinu kazon, kar jabuke cvedejo. 1967
Čebudinu kazon, kar jabuke cvedejo. 1967
Le nove caratteristiche costruzioni rurali, espressione della tradizione agricola del paese
Le costruzioni di pietra e legno adibite a stalla per l’alpeggio del bestiame, a deposito di fieno ed attrezzi, sono una caratteristica di tutta l’area alpina e vengono identi­ficate nelle baite che da noi prendono il nome di kazoni.

Nelle nostre valli i kazonj sono particolaremnte diffusi sulle falde del Matajur, del Kolovrat e delle altre alture poste sulla sinistra del Natisone mentre son più rari sul versante destro. Fa eccezione il paese di Cicigolis dove per la particola­rità del territorio retrostante, che si presta ad essere sfruttato a coltivazione di piccoli campi se ne può contare un certo numero.

Cercheremo di descrivere in alcune puntate questi kazoni, prendendoli a pretesto per illustrare anche altre curiosità legate al luogo ed al suo passa­to agricolo.
Si tratta di una microstoria che potrebbe adattarsi più o meno a tanti nostri paesi, così simili ed accomunati da medesimi usi, costumi ed avvenimenti.

L’area in cui sono ubicati i kazoni, si estende fra il costone roccioso di Polica che si affac­cia sul Natisone e due torrenti, affluenti del fiume, dal nome che richiama il tipo di vegetazione diffusa dove essi sorgono e cioè Juščak luogo di ontani e Javorščak luogo degli aceri.
Ad eccezione di uno di essi, tutti gli altri kazoni sono stati costruiti dall’inizio, agli anni 40 del presente secolo, quando la crescita demografica richiedeva ulteriori bonifiche per strappare al bosco prati e cam­picelli.

I kazoni sono costruiti in pietra ricavata dalla bonifica del terreno e sono a secco oppure fissate con malta o con argilla.

Brežkonu kazon


La prima di queste costru­zioni che incontriamo ad appe­na un centinaio di metri fuori dal paese, potrebbe essere piut­tosto una kliet / cantina ma essendo stata adibita nella parte sovrastante a fienile, la consi­dereremo kazon a tutti gli effetti.
Esso venne costruito nel 1908 da Giovanni Clignon, un personaggio non comune, che aveva trascorso la fanciullezza e la gioventù lungo le strade dell’ Impero Austroungarico come venditore ambulante di oggetti pregiati quali barometri, bigiotteria, stampe di immagini sacre ed altro.
In questo peregrinare si arricchì nella conoscenza delle lingue e anche nelle tecniche di costru­zioni stradali, conoscenze che gli furono utili poi in patria per dirigere i lavori della strada di Rodda, Pegliano e naturalmen­te per la erezione del suo kazon.

Giovanni Clignon

Giovanni Clignon era un uomo pio e devoto, in età avan­zata andava ogni mattina a messa a Lasiz ove si intrattene­va a lungo con il cappellano don Antonio Cuffolo di cui fu consigliere ed amico.
Giovanni conosceva bene lo sloveno, possedeva le pubblicazioni del­la Mohorjeva družba che con­sultava spesso leggendone nelle calde serate estive.

Il dolore più grande a cui riuscì a trovare conforto solo nella fede, fu la perdita in Russia del primogenito maschio Giuseppe dato per disperso nel dicembre 1942.

Nonostante avesse avuto tre figli maschi, il cognome Cli­gnon / Breškonovi è in estinzione ed il kazon orgoglio della famiglia e del suo costruttore, è in completo abbandono.

Il giovane Breškon intrapre­se presto la costruzione che gli stava a cuore e per non occupa­re spazio coltivabile, provvide a scavare sotto l’altura di Dobiča, lungo il sentiero adia­cente al torrente Javoršček, un incavo nella frabile opoka / marna, dove pose le fondamen­ta del robusto fabbricato tutto in pietra acconcia con copertura in laterizio marsigliese, ancora ben saldo nella sua struttura.
Va detto che il cognome Clignon è il più dif­fuso nel paese sia all’anagrafe che come nome di famiglia / hišno ime e cioé: Breškonovi, di cui parliamo, Klinjonovi, oggi Cont; Zarnažovi oggi Bir­tig; Drejcovi rimasti Clignon; Kolacì ex Clignon Andrea, estinti.
Si parla anche di tre sorelle Clignon che avevano il nome Marina la, 2a, 3a, che presero a marito tre Manzini di Pulfero.
Don Giovanni Clignon inoltre fu primo cappellano di Lasiz e don Luigi Clignon suo nipote fu per 40 anni cappella­no ad Erbezzo.

Un ramo dei Clignon Drei­covi raggiunse Tarcetta ove è rimasto nelle famiglie Vanàčonovi e Lucini; altri ve ne sono a Pegliano.
E’ possibile che proprio da questo paese il cognome sia disceso a valle, lungo il frequentato sentiero / uoznica che ancora sulle map­pe odierne viene indicato per un tratto come strada comunale di Pegliano, identificabile in monte nel. tuttora esistente per­corso lastricato «za kapune», adatto a trascinare i grossi tron­chi di legname che venivano condotti al guado del Natisone ed accatastati lungo la strada principale Cividale Kobarid in località Zaklin.

Si tratta del primo guado all’uscita del fiume dalla stretta di Pulfero, dove l’acqua per­corre una ampia ansa a causa degli avvenimenti alluvionali verificatisi all’epoca delle gla­ciazioni, quando i ciottoli rotolanti, bloccati dalla bocca di Pradolino, si riversavano oltre i nostri rilievi, scavando le falde del Matajur e dell’Osù, poste a ridosso di Brischis.
E’ da qui, infatti che ha inizio nella valle del Natisone lo strato di mate­riale alluvionale che si proten­de nella pianura. friulana unen­dosi a quello pervenuto da tutto l’arco prealpino a che costitui­sce la caratteristica del terreno gbiaioso impastato di argilla di buona parte del Friuli pede­montano.

Proseguendo lungo quello che possiamo definire il sentie­ro dei kazoni, dopo un centi­naio di metri dal primo che abbiamo descritto, attraversia­mo il torrente Javoršček che viene comunemente chiamato patok, come tutti i piccoli affluenti del Natisone.
Questo è ben incassato da muri di con­tenimento che lo costringono ad un percorso tortuoso al fine di fargli perdere veemenza durante le piene e di impedirne lo straripamento nell’ attraver­sare il paese.

Mihu kazon

Mihu kazon
Mihu kazon
In località Pod nitjo, così chiamata per il terminale di una teleferica che proviene dal­le kamunje, un definito sentiero ci porta dal guado del torrente nella proprietà Mihov lot, al centro della quale si ergono i ruderi del più vecchio ma anche più malandato dei kazoni.
Una pietra del pavimento ci indica la data di costruzione che risale all’anno 1890 e la perimentrazione ci dice che le dimensioni della costruzione erano notevoli, comprendenti cioè, oltre alla stalla ed al fieni­le anche un’abitazione dove alcuni componenti della fami­glia vivevano permanentemen­te impegnati nella cura del bestiame e nella coltivazione del terreno, la cui posizione ben orientata verso sud, come del resto tutto il territorio dei kazoni si presta alla coltivazio­ne della frutta.

Attorno al kazon vi sono ancora vecchi alberi di melo, ciliegio, pero e soprattutto susi­no, la cui frutta veniva utilizzata per la distillazione.
Il luogo è ancora ricco di acqua tanto che la prima presa per l’approvvigionamento al paese è stata derivata qui e nelle vici­nanze vi è ancora la vera di un pozzo da cui si può attingere acqua potabile.
Anche lo Javoršček in quel luogo man­tiene un filo d’acqua in ogni stagione ed uno sbarramento nella stretta gola fra il Mihu lot e la collina di Dobiča, costitui­rebbero un naturale invaso d’acqua da usarsi per eventuali riprese di coltivazioni fruttico­le.
Da notare che il patok, poco distante a monte, in una profonda forra scavata dalle acque di piena, mette in luce le stratificazioni in cui il ricerca­tore paziente può trovare reper­ti di flora calcificata.

Il proprietario e costruttore del kazon fu Michele Chiabudi­ni, capostipite dei Mihovi, uno dei quattro rami derivati della famiglia che erano presenti in paese oltre agli Špinjakovi, Maringoni e Cebudinovi, tutti originari del luogo recintato detto Duor.

I Mihovi erano numerosi perciò è probabile che avessero costruito il kazon proprio per dare spazio alla numerosa pro­le.
L’ultimo proprietario che è vissuto e morto in paese, fu Gen (Eugenio) (1898-1972), che era scapolo.
Alla diffusio­ne della stirpe provvidero i fra­telli, in particolare Tončac, guardia di finanza in quel di Mestre che ha disseminato di figliolanza il territorio adiacen­te all’entroterra veneziano.

Gen

Gen fu un personaggio emblematico, il vero, autentico stric, ben accetto da tutti per l’arguzia del suo conversare e per il tipo di vita sregolato che conduceva, rintanato nella par­te non diroccata del suo kazon ove allevava un paio di muc­che, parecchie galline ed altri animali.
Camminava sempre a piedi nudi, inseguendo lungo i sentieri di monte le sue prede, fossero esse lepri, volpi o vola­tili che incappavano nelle trap­pole, tagliole o lacci che sapientemente disponeva nei luoghi opportuni, dimenticando gli animali domestici serviti approssimativamente con un fascio di fieno ed una mastella d’acqua per giorni e giorni.
Gen non mancava agli appun­tamenti tradizionali quali il pust, la preparazione del kries, era attento nell’esigere il paga­mento della štivanka, il pedag­gio di chi sposava una ragazza del paese, alla raccolta della koleda di fine anno ecc.
Ad un certo punto della vita pensò anche a ripristinare il kazon, tanto che predispose il materia­le e spense la calce in una profonda fossa: questa calce la regalò poi alla chiesa di Lasiz poiché i pittori che affrescava­no il coro, nel 1957, la esigeva­no ben stagionata.
Anche nella coltivazione della frutta Gen Mihu non si dava molta fatica. In compensoaveva le più belle mele perché sapeva aspettare la loro matu­razione e le coglieva quando avevano il miglior colorito: le passava poi con uno straccio una ad una rendendole lucide, le disponeva nelle pletenice che trasportava con la barela a Cividale. Quelle mele andava­no a ruba.

Come tutte le costruzioni isolate, anche il Mihu kazon nella fantasia della gente divenne rifugio di personaggi misteriosi, škrat o krivapete, oppure sede di avvenimenti divertenti come la storiella che segue.

Miha e la moglie Katina, antenati dì Gen, avevano una mucca che faceva poco latte e soprattutto aveva il vizio di infilare saltuariamente la testa dalla finestra della stalla del kazon per lanciare una sequen­za di dodici fastidiosi muggiti. La mucca fu venduta al mercato di Cividale ed i coniugi si misero alla ricerca di un’altra bestia migliore della Cika.
Pas­savano da mercato a mercato senza riuscire a trovare quanto cercavano, finalmente, sempre a Cividale, trovarono la mucca che si aspettavano.
Questa si dimostrò gentile verso di essi, si lasciò accarezzare, leccò le guance alla Katina fino alla commozione e l’affare si fece.
Lungo la strada verso il paese la mucca, anziché recalcitrare precedeva scodinzolando i Mihovi e giunta al paese si diresse quasi di corsa lungo il sentiero che portava al kazon.
Entratavi, la mucca infilò la testa dalla finestra e gioiosa­mente fece risuonare lungo la valle i suoi dodici muggiti.
Solo allora, Miha disse alla moglie:
«Akralot, Katina, glih tisto kravo sma ukupila!».

Kontu kazon

Kontu kazon
Kontu kazon
Salendo per un centinaio di metri dal Mihu kazon, lungo il sentiero praticato in mezzo all’erba, sulla cresta delle Sanožeta ci imbattiamo in una carrareccia percorribile con i mezzi fuoristrada: è uno dei due percorsi ad uso agricolo che partono dal paese verso il monte.

Oltrepassate due proprietà, rispettivamente dei Manzini e dei Gusola, di cui faremo cen­no in altra occasione, final­mente incontriamo un fabbri­cato ristrutturato e trasformato in luogo di relax in mezzo al verde, un rifugio familiare curato ed arredato nel rispetto della primitiva architettura, cir­condato da piante e fiori, che fanno risaltare il buongusto dei proprietari, la famiglia Cont (Klinjonovi).

Questo kazon è stato costruito da Antonio Cont (1915 ― 1981) dopo l’8 settem­bre 1943, in quel breve felice periodo per i nostri paesi, quando i giovani riuscirono a rientrare dai vari fronti e dedi­carsi nuovamente alla cura dei proprii averi.

Facendosi aiutare da paesa­ni e parenti, Tonin riuscì a rea­lizzare in breve quella solida opera, tutta in pietra, con travi in castagno e tegole recuperate parzialmente da un vecchio fabbricato esistente in paese.
Sull’angolo destro c’è la data 1943 ed un fiasco inciso nel cemento che voleva essere di buon auspicio per la riuscita dell’opera, subito utilizzata come stalla nella parte inferio­re e deposito di foraggio nella parte sovra­stante.

Selišča, così si chia­ma il prato, èsempre stato l’ appezza­mento di maggiore impegno ma anche delle più grandi soddisfazion per i Cont.
Qui, e nelle dirimpettaie Močila, essi producevano la maggior quantità di mele seuke del paese avendo pun­tato su que­sta coltura con un massiccio impianto di selvatico innestato in loco.
Avevano di che portare i gio­vani figli di Tonin con gerle, con cesti e con qualsiasi mez­zo, questo frutto piuttosto tar­divo che stivavano nei «bagni».
Era questo un locale costruito nella prima guerra mondiale per la disinfezione e l’igiene personale dei soldati italiani che si avvicendavano al fronte.
In questo luogo umido e fresco le seuke si conser­vavano a lungo acquistando quella fragranza che i mercanti di Cividale, Cormons e Gorizia sapevano apprezzare.

Con la parte più scarta del prodotto, le pàdance e le mele bacate, i Cont producevano anche molto sidro, japkovàc che purtroppo, a causa della scarsa gradazione, non resiste­va ai primi caldi, diventando acidulo oppure tendeva a «fila­re».
Se si fossero applicate le odierne conoscenze enologi­che, quel sidro, dolcissimo al momento della produzione, sarebbe potuto stare alla pari e confondersi con qualsiasi spumante frizzante ricco di bolli­cine che va oggi per la mag­giore, come qualcuno è riusci­to a dimostrare recentemente per scommessa.

L’attrezzo per la frantuma­zione delle mele, mùškalca, la macina di pietra con relativo canale, korito, ricavato da un tronco di castagno serviva a tutto il paese, altrettanto il tor­chio, la cui base, anche essa di pietra, corro­sa proprio dal vino di mele, si tro­va esattamente nel luogo origi­nario, nel centro del­ paese, du vas, dove abitano i Cont, nel gruppo dei fabbricati addossati uno all’altro ed in passato tutti apparte­nenti ai Cli­gnon.
A con­ferma della vetustà della loro abita­zione era visibile sul lato nord di essa una pietra datata, oggi ricoper­ta di malta, che a memoria di alcuni risale al 16° secolo.
Anche il parroco di Lasiz e studioso di cose antiche, don Antonio Cuffolo, sosteneva che quel gruppo di case era il più antico del paese.



Malin

La famiglia di cui parliamo aveva parte, assieme ad altre quattro, nella proprietà del mulino posto sul Natisone.
Questi Clignon hanno assunto l’attuale cognome Cont da due generazioni, mediante un zet (genero) proveniente da Cane­bola.
Altrettanto vale per le famiglie che portano i cogno­mi Raiz, Saffigna e Bonaz. Ai nostri giorni, in cui le distanze vengono misurate inbase al percorso stradale in chilometri, può sembrare stra­na questa migrazione di giova­ni provenienti da Masarolis e Canebola, distanti ore di cam­mino. In realtà molto spesso si trattava di giovani hlapci, famigli che si adattavano a qualsiasi lavoro pur di avere di che mangiare e dove dormire. Bisogna anche aggiungere che la montagna era ricca di sentie­ri che si intersecavano ed i per­corsi in quota erano molto fre­quentati, anzi costituivano i legami naturali così ricchi di scambi culturali, affettivi, eco­nomici; la montagna come il mare non era segno di divisio­ne, bensì di unione.

Il giovane Cont dunque discese dalla Kraguojnca a Cicigolis, portandovi il cogno­me e la intraprendenza dei montanari che trova conferma negli ultimi rampolli, tutti uomini affermati nei vari cam­pi dell’artigianato quali quello dell’edilizia, della falegname­ria, del commercio, delle costruzioni metalliche.
Essi non trascurano inoltre la con­servazione delle tradizioni musicali e canore del paese.

Don angelo Cont

Dei fratelli del costruttore del kazon Antonio, va menzio­nato don Angelo Cont, (1911―1935), il cui ricordo è ancora vivo tra i suoi compa­gni di studi e nei paesani più anziani che ne condivisero la triste vicissitudine. Don Oreste Rosso di Martignacco, il noto musicista friulano, ne ricorda lo spirito spensierato, il carat­tere spontaneo e ricco di umo­rismo che sapeva trasmettere ai compagni di seminario. In 10 teologia si ammalò, deperendo progressivamente e trovandosi in pericolo di vita venne con­sacrato sacerdote in via straor­dinaria dall’arcivescovo mons. Nogara nella chiesa di Lasiz il 6 marzo 1935 con una parteci­pazione commovente da parte della popolazione di tutta. la valle, descritte con grande sen­timento nelle pagine della cro­naca parrocchiale da don Cuffolo.
In agosto il novello sacerdote si recò a Lourdes ove ottenne la grazia di accet­tare il male che lo aveva così crudelmente colpito; a soli 24 anni, il 30 settembre pre Ange­lin spirò.

Un'invenzione singolare: un prototipo di lavatrice

Antonio, comunque, più che come costruttore del kazon, è passato alla storia in paese quale inventore del prototipo della lavatrice.
Ecco il raccon­to registrato a suo tempo.

«Era l’inverno del ‘44, in febbraio, lo ricordo bene perché c’erano i cosacchi, nacque il primo figlio maschio, Luigi.
Ero intento al mulino quando intravvedo sul lavatoio la mia anziana mamma che si predisponeva a sciacquare nell’acqua gelida un cesto di pannolini.
Mi. venne un lampo. Dissi alla mamma di lasciare li il cesto, che lo avrei riportato a casa io con i pannolini sciacquati. Lei mi guardò meravigliata, sapen­do quanto fosse inaudito che un uomo si mettesse in un ruo­lo femminile quale era la lava­tura della biancheria. Alle mie insistenze se ne andò scuoten­do la testa.

Fermai la ruota piccola, quella del vaglio (sito) e legai con dei vimini un pannolino per ogni pala del mulino indi feci scorrere l’acqua sempre più velocemente, anzi ero divertito dai pannolini che uscivano ed entravano in acqua come le anitre quando sbattono le ali.
Alcuni di essi dovetti rincorrerli lungo il canale (rojca), poi migliorai il metodo inchiodando alle pale delle reti in cui li infilavo e così da allora, specie d’inver­no, avevo più lavoro a sciac­quare pannolini che a macinare cereali».

Bonacu kazon

Bònacu kazon
Bònacu kazon
­Lasciate le Seliišča con il bel Contu kazon, riprendiamo il trat­turo di cresta da cui dopo dieci minuti devieremo sulla destra lungo una ripida traccia appena segnata sul terreno argilloso, per ritrovarci dopo altri cinque minu­ti nella Dolina, un luogo pianeg­giante contornato però da prati scoscesi nel bel mezzo dei quali scorgiamo il saldamente ristrut­turato ed efficacemente ricoperto Bonacu kazon.

Adibito per lo stivaggio del fieno, il kazon venne costruito inizialmente con muro a secco e ricoperto da lastroni di pietra di cui la Dolina era disseminata dal proprietario Pietro Bonaz (1897/1970) nel 1938, anno di nascita dell’ultimo rampollo Bru­no.

La concomitanza della costruzione di un kazon con la nascita di un figlio, riscontrabile in quasi tutte queste opere, fa presumere che essa costituisse un forte stimolo oppure l’esigenza di possedere ulteriore terreno bonificato da utilizzare per la sopravvivenza della famiglia.

E non si trattava di un impegno di poco conto in considerazione anche della notevole distanza della Dolina dal paese. Ma per un uomo dalla forza, tenacia e volontà, di cui era dotato Petar Bonazu, non esistevano ostacoli. Basta pensare che dopo otto o più ore di pesante lavoro nella cava di marna di Tarcetta, usu­fruendo delle ore di luce estiva, trovava la forza di recarsi nella Dolina, smuovere dal terreno i grossi massi ed i lastroni di pietra per collocarli sapientemente uno sull’ altro, in ciò aiutato dagli altrettanto laboriosi familiari.

fl figlio Brunic, tenace quanto il padre, mediante le odierne migliorate possibilità di trasporto dei materiali ha parzialmente ele­vato e consolidato con malta i muri del kazon che è incassato nel terreno in declivio così da avere agevole accesso sia al pia­no inferiore, stalla, che al supe­riore, fienile.
Esso costituisce luogo di ricovero per cacciatori, cercatori di funghi o semplice­mente camminatori che dall’orlo della Dolina, sulla cresta della Poliza possono veder scorrere un buon tratto del Natisone sotto­stante adiacente al campo sporti­vo comunale di Pulfero ed ammirare da vicino il Matajur con i paesi di Mersino e Rodda.

Le cave di marna

La cava di marna, in cui lavo­rava Petar, ha costituito per molti anni il sostentamento per le fami­glie numerose i cui padri aveva­no la precedenza nell’assunzio­ne; anche le casse comunali usu­fruivano di un introito non indif­ferente dovuto per legge dagli imprenditori al pubblico ente nel cui territorio ricadeva la cava.

Una cava di marna c’era sopra Tiglio con relativa teleferi­ca che scaricava il materiale nella tramoggia ubicata dove c’è l’attuale hotel Natisone.
Da qui la marna veniva trasportata a Cividale con il trenino allora in funzione oppure con appositi carri trainati dai cavalli; da que­sto attività derivava per il territo­rio una vivacità economica.
Altra cava c’era a Oculis poi a Tarcet­ta, la maggiore, ed infine a Coliessa, sopra la grotta di Antro, da cui il materiale scende­va in teleferica per essere riversa­to nella tramoggia che ancora oggi si erge come un monumento isolato sopra l’abitato di Cras.
L’ultima cava utilizzata saltua­riamente si trova a Vernasso sen­za però concrete possibilità di impegno di personale. (Il Chiabudini fa un po' di confusione. La prima cava fu quella di Azzada, da dove la marna veniva trasportata con i carri a Cividale e da Cividale col trenino ad Udine
La vera “grande” cava fu quella di Oculis. La marna veniva estratta, per la massima parte, seguendo la vena nelle gallerie e trasportata col trenino a Cividale.
Esaurendosi, si iniziò con la cava di Tarcetta (Cras), ancora più grande e per un periodo abbasnza breve anche con quella di Colliessa. La marna veniva trasportata da Coliessa nella tramoggia di Cras (ancor oggi visibile) e da lì scaricata nei vagoni del trenino. A Tiglio iniziò l'era industriale. La marna veniva scavata a cielo aperto e venivano utilizzate le macchine. La marna veniva trasportata su teleferica fino alla tramoggia di Tiglio (Hotel) e da lì caricata sui camion (il trenino non esisteva più da tempo). Da Tiglio la cava si trasferì a Vernasso, dove il lavoro divenne veramente industriale e la marna veniva trasportata sempre con i camion a Cividale. E' ancora ben visibile lo scempio nella montagna)

I ragazzi di allora ricordano l’impegno giornaliero di portare al papà ad ai fratelli il pranzo confezionato a casa con la polen­ta ancora fumante (di pane non si parlava se non nelle grandi occa­sioni), potendo vedere così da vicino come si svolgeva il pesan­te lavoro.
C’erano gli addetti alla «scoperta», vale a dire al taglio del bosco ed all’ asporto della ter­ra perché allora veniva utilizzata esclusivamente marna pulita. Le tecniche odierne di produzione del cemento, invece, con le ele­vate temperature dei forni, i potenti frantoi e gli additivi di scarto della industria siderurgica, consentono di utilizzare quasi tutto quanto viene estratto dalla cava.

Seguivano i minatori addetti alla cavatura, che si alternavano a battere con la mazza ed a soste­nere e roteare la punta di acciaio sagomata a rosa che penetrava nella marna; con uno speciale cucchiaio venivano estratti la polvere ed i detriti che si forma­vano nel profondo foro dove venivano inseriti i candelotti di dinamite.
Ad alleviare le sete c’era sempre un garzone che con un secchio di acqua fresca ed un mestolo di rame (koràc) faceva il giro della cava.

Gli specialisti con gli esplosi­vi e la miccia caricavano le mineed alle 16 di ogni giorno un suo­no di tromba avvertiva dell’inizio delle esplosioni che rintronavano nella valle e dilaniavano in profondità le rocce; talvolta frammenti venivano lanciati fmo sopra i tetti dei paesi limitrofi. (questo avveniva solo a Vernasso)

Dopo questa disgressione sul­le cave di marna che la vegeta­zione ha parzialmente maschera­to (Ndr.: non certo a Vernasso!), rimarginando le ferite più visibili procediamo alla ricerca del kazon più distante del paese.

Matiju kazon

Matiju kazon
Matiju kazon
A sinistra del Bonacu kazon la traccia ci riporta, dopo un per­corso in ascesa sempre più accentuato, a ritrovare la carra­reccia che seguiremo in mezzo ad altissimi castagni selvatici.
Voltando prima a destra poi a sinistra al termine del percorso appare il Matiju Kazon che si presenta in un primo momento come un rudere ma che tale non è: i muri a secco sono saldi, le travi di copertura pure, manca solo il materiale e l’opera di copertura per dotare il viandante di un rifugio sul Varh Rebrih, dove terminano i possessi e le Kamunje dei Cicigolesi.

Sappiamo che questo kazon, coperto con lastroni di pietra, lo costruì Antonio Raiz, Toni Matiju (1886/1969) ma non sappiamo quando, presumibilmente nel primo dopoguerra, in seguito alla nascita del figlio Gino, (1917/1945) deceduto a casa in seguito a malattia contratta in guerra in Croazia.

Fa meraviglia questa opera costruita da nunac Toni, un uomo di taglia non robustissima, faceva infatti di professione il sarto che come il calzolaio e simili erano considerati mestieri non faticosi.
Nella sua attività lo affiancava efficacemente la moglie Vigja.
Nunac Matiju era una persone fine, di bella presen­za, di adeguata statura, era mite ed umile ma sapeva esprimere sprazzi di spensieratezza quando toglieva dal chiodo la vecchia fisarmonica «štajarska» ancora conservata dagli eredi, per scate­narsi a tutto volume nella «Cu―njar―ca, cu―njar―ca. .. » la sua musica preferita.

Zarnažu kazon

Zarnažu kazon
Zarnažu kazon
Zarnažu kazon
Zarnažu kazon
Sempre attorniati da alti castagni, che a questa quota di circa 400 metri sul livello del mare e nel tipo di terreno argil­loso su cui crescono trovano il loro habitat ideale, ci dirigiamo dal Matiju kazon verso Ovest, lungo un sentiero ormai poco praticato per giungere in una vasta radura in leggero decli­vio, al centro della quale si erge il Zarnažu kazon della ex famiglia Clignon, ora Birtig.

Ci troviamo nella Kamunja, un possedimento che, grazie alle cure dei proprietari, non è stato ancora invaso dal bosco, la stessa cura che ci consente di apprezzare il ristrutturato kazon, tuttoggi destinato alla sua originaria funzione agricola.

La struttura della costruzio­ne è rettangolare, di dimensioni notevoli, posta su due piani con copertura in coppo.
Una pietra posta a mezza altezza sul lato Ovest porta incisa la data 1913, che non si sa se per civetteria o per esigenze murarie, porta i numeri capovolti.

Don Luigi Clignon

Come sopra accennato, il kazon appartiene alla famiglia di don Luigi Clignon (1859 ―1942) che fu per quaranta anni parroco di Erbezzo.
Egli fu una figura importante nella valle del Natisone, buon predicatore ma soprattutto convinto difen­sore della nostra tradizione lin­guistica e devozionale.
E’ noto che a pre Luigi va il merito della prima pubblicazio­ne nel nostro dialetto sloveno, un libriccino della Križova pot (Via crucis) come si prega a Erbezzo, che è stato edito a Cividale nel 1923 e di cui sono reperibili attualmente solo 3 copie.

Pre Luigi ebbe cura ovviamente anche della sua famiglia provvedendo a sue spese, si dice, alla costruzione in paese di una casa nuova accanto alla vecchia.
Altrettan­to si presume sia accaduto per il kazon che venne eretto avva­lendosi anche della manodope­ra dei parrocchiani di Erbezzo la cui distanza dalla Kamunja, lungo i sentieri di montagna, era relativamente breve.

Le pietre di base del kazon, ben squadrate e lavorate di scalpel­lo, fanno pensare addirittura che siano state recuperate da qualche antica costruzione esi­stente sui monti circostanti ed ivi trasportate.

Nella stalla del kazon, al termine della stagione estiva, quando le mucche ritornavano in paese, rimaneva spazio per accumulare le foglie secche da adibire a lettiera nella successi­va stagione e ricavarne stallati­co per la concimazione dei campicelli, ma in modo parti­colare vi venivano ammucchia­te le castagne raccolte ancora nei ricci affinchè l’umidità in essi contenuta continuasse a garantire la loro buona conser­vazione.
Quassù nelle Kamunje, in questo luogo idea­le, le castagne acquisiscono quel particolare sapore, quel gusto dolce e sapido e soprat­tutto contengono quelle calorie di cui la gente aveva bisogno nel faticoso lavoro di monta­gna.
Se dovessimo fare un monumento ad un albero, ci troveremmo imbarazzati a dover scegliere tra il melo ed il castagno, ma alla fine dovrem­mo optare per il castagno, che oltre al frutto, fornisce anche le rubuste travi per le costruzioni.

Naše burje

La regina dèlle nostre casta­gne è considerata giustamente la purčinka, che ricompensa in gusto la minore pezzatura e questo era noto anche ai friulani che aspettavano i nostri car­retti con «lis cjanalutis», da consumarsi per tradizione attorno al focolare, assieme alla dolce ribolla, alla vigilia dei Santi, «cjastinis e ribue­le...». Non ci dilungheremo nel descrivere le qualità delle altre castagne prodotte, frutto di sapienti innesti e annose attese; ricorderemo solo gli objaki, di pezzatura grossa e di sapore meno concentrato, i bogatci, le čufe ed altre varietà, meno pre­giate a causa della difficoltà a staccare la pellicola interna.
L’abbacchiatura delle castagne mediante le lunghe verge di frassino, late, richiedeva abilità e costituiva un notevole rischio di cadute dall’albero, come viene documentato dalla ricer­ca di cronaca nera in corso di pubblicazione sul nostro giornale.

Chi possedeva il kazon, come i Zarnažovi, vi stivava i ricci ed a tempo opportuno, in base al consumo sia famigliare che per ingrassare il suino, ed alla richiesta di mercato, prov­vedeva a sgusciarle portando a valle il frutto pulito e perfetta­mente conservato.

I Zarnažovi però avevano un altro grosso vantaggio nel trasporto a valle dei prodotti in quanto avevano installato una teleferica fissa, ancora oggi in tensione, che parte dalla Kamunja per terminare nei pressi del paese. Lungo il filo di acciaio, appesi alle sibilanti čidule, carrucole, scéndevano veloci i fasci di fieno, le fasci­ne di legna e tutto ciò che pote­va essere trasportato, con opportuni accorgimenti, senza danno al prodotto.
In cambio di piccole manutenzioni alla tele­ferica, ne usufruivano anche i proprietari degli appezzamenti adiacenti, con rispettivo van­taggio.

Questo tipo di trasporto suscitava interesse e curriosità, specialmente nei ragazzi che riproducevano in miniatura, con spago e carrucole di legno fatte tornire dall’artigiano del paese, le teleferiche per i loro giochi semplici ma stimolanti della fantasia e creatività.

Ritorniamo ancora un atti­mo sul presumibile realizzatore del Zarnažu kazon, quel pre Luigi che, come tutte le perso­ne eminenti, era rispettato, temuto ma ripreso anche nelle sue debolezze, in questo caso la sua sproporzionata passione per l’uccellagione.
Ogni matti­na, lassù ad Erbezzo, sopra la chiesa di Sant’Andrea tendeva i suoi agguati agli innocenti piccoli volatili.

La grande passione di pre Luigi

Si narra in paese che una mattina era talmente impegnato nel suo hobby che solo il suono della campana lo rammentò dell’ora della messa. Frettolo­samente staccò dal vischio le tre cince che vi si erano impa­niate e per non tardare oltre le infilò nella camicia, corse in sacrestia, indossò i paramenti e iniziò la celebrazione con il fiato grosso, il che fece impen­sierire i numerosi fedeli, ignari del motivo di tale affanno.

Da principio le tre cince al buio rimasero immobili, poi, al contatto del tepore del corpo di Pre Luigi, incominciarono a muoversi, a graffiare e beccare la fonte del tepore. Al Sanctus le pie donne si accorsero di una certa sofferenza del parroco (che allora celebrava rivolto all’altare) ma egli sopportando in silenzio il martirio studiava il modo di liberarsene senza creare scandalo alle attente fedeli, così al momento di bat­tersi tre volte il petto nel «Domine non sum dignius», con tre compunti ma decisi bat­titi ai petto, spense la causa della sofferenza che lo afflig­geva.
Rivolto alla gente per la distribuzione della comunione il volto rasserenato di pre Luigi tranquillizzò le buone parroc­chiane.
«Mu je prepasalo», il malessere gli è passato, com­mentarono.

Titu kazon

Titu kazon
Titu kazon


Titu kazon
Titu kazon
Dall’orlo della Zarnažova kamunja, nella sottostante pro­prietà Deganutti, appare il Tìtu kazon, di recente ristrutturato e modernamente trasformato in luogo di relax.
Artefice dell’adattamento è stato Piero, noto nelle valli quale esperto costruttore di furnel o sporget o spolert, che non manca in nessuna delle nostre case e che ha soppiantato il fumoso e pri­mordiale fogolar.
Il furnel ci è pervenuto dal vicino Friuli (in Slovenia come è noto è presen­te la peč come pure il cogno­me Deganutti che, assieme ai Manzini, sono gli unici cogno­mi presenti in paese di certa derivazione romanza.

Piero Deganutti, costruttore di furneli

La particolare arte muraria di costruire i furnel, che richie­de una specifica capacità ed esperienza, Piero l’ha ereditata dal padre Fermin (1910 ―1980) che fu buon muratore e provvide ad erigere nell’immediato dopoguerra questo kazon, coadiuvato dalla moglie Maria che ben ricorda le fatiche ed i sudori per trasportate con la gerla il materiale occorrente.

Il Titu kazon è una delle poche opere che abbia fruito allora di contributi da parte di enti pubblici, in questo caso si parla di 15 mila lire erogate dall’Ispettorato provinciale all’agricoltura.

Questi interven­ti, cosiddetti a pioggia, non erano finalizzati alla realizza­zione di un armonico sviluppo, almeno questa è l’impressione che se ne ricava in base ai risultati fallimentari dell’agri­coltura nelle nostre valli.

Vennero spesi soldi per la stalla di Rodda, ben presto fal­lita,
fu stimolata la produzione di pesche in particolare a Rod­da, a Lasiz ed anche a Cicigo­lis, che si rivelarono ben presto di scarso effetto poiché manca­va tutto il complesso di struttu­re che vanno dall’assistenza tecnica, alla conservazione, al commercio.

Più o meno ciò di cui si avverte la necessità oggi per la coltura delle mele, con l’aggravante che’ la pesca è un frutto più delicato da manipola­re e di minor durata nella con­servazione.
Viene da pensare che i contributi venissero ero­gati più per un debito di coscienza verso questi troppo buoni e fedeli cittadini italiani destinati all’estinzione, che per una reale rinascita sociale ed economica della zona.

Fermino Deganutti, Tìtu, fresco di matrimonio e con la famiglia,jn crescita, pensò bene di dotare il suo Lot di un kazon, utilizzando parte del materiale di un preesistente ricovero e completando l’opera con blocchi di cemento prepa­rati a valle, dove ghiaia e sab­bia nel Natisone non mancava­no. I blocchi, chiamati «bolo­gnini», venivano trasportati lassù nel Lot, con la gerla; una fatica improba ed impensabile ora che la località è raggiungi­bile con mezzi motorizzati.

Il Titu kazon, costituito dai tradizionali due piani (stalla e fienile) è posto con la facciata rivolta a mezzogiorno e da qui si gode una bella vista lungo la valle del Natisone e ad est sono visibili i paesi di Rodda Alta (Skubina, Bručana, Tuomaz, Klavora ecc.). Come abbiamo potuto osservare nelle precedenti pun­tate, il possesso del kazon adi­bito ad alpeggio del bestiame nei mesi estivi, consentiva la produzione in loco del letame, indispensabile per la concima­zione di piccoli appezzamenti terrazzati che si volevano utilizzare a coltura prevalente­mente di patate, rape, verze fagioli ma anche mais, grano saracèno (gejda) e perfino cereali «nobili» come il grano, orzo, avena.
Il terreno, però,. anche dissodato restava duro, talvolta impenetrabile alla van­ga che era l’unico mezzo utiliz­zato per rimuovere la terra.

L'ingegno di Fermin

Qui va proprio segna­lato l’ingegno di Fermin che con alcuni ingranaggi di recu­pero riuscì ad assemblare una specie di àrgano che fissava al terreno al margine del campi­cello.
Mediante una moltiplica, che ne riduceva lo sforzo, con le braccia azionava una manovella, la quale consentiva di arrotolare su un tamburo un cavo di acciaio a cui era aggan­ciato un piccolò aratro che apriva i solchi guidati dalla moglie. Non è stato accertato il buon esito della invenzione, certo fu invece l’interesse dei paesani che per curiosità, per gioco ma soprattutto per la per­sonalità di Fermin, si alterna­vano divertiti alla monovella del singolare congegno... arati­vo. La personalità e l’ascenden­te presso i suoi coetanei ed i paesani, furono una sua dote naturale anche per effetto di alcune forme primordiali di valutazione basate sulla forza fisica. Ferniin sbalordiva com­pagni e bambini quando con la forza dei suoi bicipiti, riusciva a spezzare il cinturino di cuoio che gli veniva allacciato sopra i muscoli del braccio; ancor più quando la stadera fissata al ramo del vecchio noce a cui veniva appeso il grosso fascio di fieno (brieme) portato a schiena dal monte si sollevava oltre la tacca (zarieza) dei cen­to chili!

Egli possedeva mia bella voce di basso e molte del­le canzoni slovene, che ancora si cantano in paese, i ragazzi di allorale appresero da lui. Esente per classe dal servizio militare, salvo un breve richiamo, con la sua costante presenza durante tutto il periodo bellico fu garante del buon ordine in paese sotto gli occupatori di turno (tedeschi, casacchi, mon­goli, partigiani italiani e slove­ni, repubblicani...), fintanto che poté esser ascoltato.
Da lui i ragazzi hanno appreso molta, di quella manualità artigianale di cui sono carenti le odierne generazioni.
Fermin possedeva un laboratorio con tanto di fucina e lì, gli occhi attenti dei ragazzi scoprivano i segreti di una efficace stagnatura, la realizzazione di un temperino con il manico di osso, del krujac, il piccolo coltellino con la lama cortissima, ornato da un anello di ottone ricavato da una car­tuccia, che ognuno possedeva per sbucciare alla sera la sua obbligatoria razione di castagne destinate al maiale; osser­vavano la tornitura del legno, la forgiatura di attrezzi da taglio o semplicemente del rempin (fr. codarìn), il caratte­ristico gancio infilato nella cinintura per appendervi l’osunjak (kodàr) appunto, o il pàuč, il kanjac (specie di roncole).

Fra un colpo e l’altro sull’incudine, agli attenti ascoltatori l’uomo sapeva narrare leggende sconosciute od origi­nali, come il peregrinare di Cri­sto e san Pietro nelle chiesette poste sui crinali dei nostri monti, delle quali descriveva tutte le statue lignee poste sugli altari, il loro atteggiamento, la loro posa e le loro insegne è ciò stimolava in occasione del­le varie objube, opasila e sejmi (sagre) a verificare la veridicità delle descrizioni udite.

Per molti anni Fermin lavorò con una impresa locale che ovviamente assumeva lavori ovunque essi fossero.
Di questa sua attività vengono ancora menzionati almeno due episodi:
il primo di essere rien­trato a piedi da Lignano alla fine della settimana lavorativa perché mal sopportava i sob­balzi del motocarro;
il secondo per avere salvato da una aggressione dalle parti di Pre­potto, il ricavato di una opera eseguita a Manzano, che l’impresario gli aveva affidato e che lui provvidenzialmente aveva infilato nell’impensabile nascondiglio costituito dalla manica di una stracciatissima giacca.

Ma il ricordo più saldo e duraturo rimarrà il suo kazon.

Un singolare kazon - Kaližu kazon o Uancu kazon

Vancu kazon
Vancu kazon


Vanzu kazon
Vanzu kazon
­Per i nostri lettori che hanno avuto la bontà e la pazienza di seguirci in questo itinerario dei kazoni e che probabilmente avranno espresso delle perples­sità nell’avere noi dato tanto spazio ed un aspetto tutto som­mato di scarso interesse gene­rale, vogliamo proporre oggi un kazon che presenta più di qualche singolarità e può dimo­strare con la sua solidità l’inge­gno che ha permesso a dei muratori autodidatti e con scar­si mezzi a disposizione di rea­lizzare opere così durature, tali da giustificare l’attenzione e lo spazio dedicatovi.

Il Uàncu kazon, di cui parle­remo oggi, è rimasto della pro­prietà della famiglia del costruttore, Cedermas, è l’uni­co kazon costruito su tre piani, ed è l’unico rimasto agibile nella sua struttura originaria senza avere subito alcun inter­vento.
Ciò che desta meravi­glia, a detta di alcuni tecnici che recentemente hanno avuto modo di esaminare la costru­zione, è il complesso di alte e sottili colonne in pietra fissate solo con la malta e collegate con una efficace ed ingegnosa legatura all’ordito della trava­ture.

Questa particolare struttu­ra ha efficacemente resistito alle sollecitazioni del terremoto del 1976, quando tutte le altre costruzioni, sebbene di due e non di tre piani, subirono gravi danni.

Il kazon è vincolato dagli uffici catastali quale pun­to fisso geodetico.

L’ideatore e costruttore dell’opera che era calzolaio e non muratore, fu quell’Agosti­no Cedermas ― Kaliž, di cui sono piene le cronache locali per i fatti d’arma accaduti dopo l’8 settembre 1943.

Agostino, Uštin, era nato a Pegliano nel 1904 e nel 1928 sposò Onelia Plata, vivente, trasferendosi come zet, nella famiglia Medves, parente della moglie, privi di eredi.

Su una pietra alla base del kazon tro­viamo scolpite le iniziali C.A. e la data 1932, anno di nascita del figlio Silvano.
Ciò confer­ma, quanto detto in altre occa­sioni, che la crescita della famiglia costituiva lo stimolo a bonificare terreni e costruire kazoni.

Agostino abbatté e sradicò dal terreno il bosco a taglio periodico, il cosiddetto bosco ceduo, e piantò nello spazio non utilizzabile a sfalcio, un certo numero di larici, masasni, che si sono rivelati un buon investimento a lunga distanza. Qui sarà il caso di aprire una breve parentesi sulla coltura del bosco, oggi di attualità se non altro per le polemiche sorte sulla presunta scarsa consi­derazione degli enti pubblici verso questa forma di sfrutta­mento del nostro territorio.

I nostri carradori

I più anziani ricordano cer­tamente i nostri carradori che alla sera, con un lumino a petrolio appeso sul retro del carro, intraprendevano il lungo percorso verso Udine per esse­re presenti all’alba in Braida Bassi per la contrattazione e la vendita del carico.
Gli acqui­renti sapevano riconoscere ed apprezzare la nostra legna da ardere, costituita prevalente­mente da carpino (bianco e gri­gio, gabar), frassino (isen), acacia (akacija), ontano (uša), faggio (bukva), acero (jauar), rovere (dob) ed altre essenze meno conosciute, ognuna delle quali però per noi aveva un nome ben preciso: klin, briest, obuor, nagnòj, ed altre.
Il più delle volte la legna veniva con­segnata già segata e spaccata, mentre. le famiglie di città di poca possibilità la acquistava­no in tronchi ed accettavano, per minor prezzo, anche legno di castagno che non sempre fa una buona.combustione.
C’è da dire che per realizzare il massi­mo guadagno da noi si brucia­vano solo i rami e la legna pati­ta, riservando quella migliore al mercato.
I fusti più diritti di acacia, frassino e castagno venivano venduti a maggior prezzo perché utilizzati quali pali di sostegno nei filari di viti. Chiusa questa breve paren­tesi sulla coltura boschiva, vale la pena di fare ancora un cenno biografico su Uštin Cedermas, di cui si può leggere un profilo più ampio sul Trinkov Koledar 1994.
Quest'uomo dalla intelli­genza vivace ed estroversa, che mal si adattava alla meschina realtà contadina, tentò inizial­mente di uscirne mediante una bottega di calzolaio aperta a Pulfero, da qui ben presto approdò al commercio ambu­lante.
Negli anni Trenta acqui­stò uno dei primi camioncini che circolavano lungo le nostre strade e rivolse il suo commer­cio in particolare verso il vici­no territorio di Caporetto dove fece sì buoni affari ma assorbì anche quelle idee politiche che costarono a lui il confino e neldopoguerra alla sua famiglia l’ostracismo riservato ai cosid­detti «filoslavi».
Basti pensare che Kaliž venne ferito grave­mente sul Matajur nel corso di un combattimento contro i tedeschi e nell’estate del 1945 da una raffica dei tricoloristi che scorrazzavano con un camion a Pulfero.
Rifugiatosi presso gli inglesi fu inviato in un ospedale a Bari.
Al ritorno trovò ospitalità a Svino nei pressi di Caporetto, ritornò successivamente a casa ed, ammalatosi, mori dopo lunga degenza nell’ospedale di San Daniele del Friuli il 21 aprile 1976, poco prima di quel terre­moto che avrebbe collaudato la solidità della struttura del suo kazon, la parte migliore e più duratura rimasta a testimonian­za della sua permanenza in paese.

In una precedente puntata abbiamo fatto cenno ad altre due famiglie, non necessariamente legate ai kazoni, da cui però sono uscite delle persone che hanno dato lustro al paese e che anche in queste note è giusto che trovino un posticino.


Ci riferiamo alla famiglia Gusola, una delle più antiche qui presenti, diramate nei Mocovi, Budràjkni e Gùzelovi propriamente detti.

Don Janež Gusola

E’ da que­sta famiglia che proviene don Janez Guzola 1818 / 1865 cap­pellano a Erbezzo e Tercimon­te, nel cui cimitero ci sono a lui dedicate, ben due lapidi con le scritte:
Tukaj počivajo kosti maàšnika Ivana Guzol iz Schi­glah umerl na 13 settem. 1865, star 46 let ― Venčna lu# najim sveti;
Tukaj počiva mašnik Janez Guzola rojen XXII okto­bra 1818 v Ščiglah - kaplan nekdaj u Erbe#u potlej v Tarčmune umerl je XIII sep­tembra 1865. Naj po#iva v mieru.

Don G. B. Manzini

L’altra famiglia, i Manzini, pervenuta da Pulfero è dirama­ta nei Žuànovi, Uagrinkni Janežkni e Žefàčovi, da cui don G. B. Manzini, 1854 / 1925, per 32 anni cappellano di Ver­nassino, sepolto nel cimitero di Lasiz.

Čebudini kazon

Čebudinu kazon
Čebudinu kazon
Al di fuori del gruppo di kazoni, che abbiamo finora descritti, tutti ubicati ad Est del torrente Javoršček, nel territo­rio delimitato ad Ovest di esso e dallo Juščak, c’è una modesta costruzione risalente al 1920, il Cebudinu kazon, il kazon della mia famiglia.
La data è incisa su un mattone dello stipite del­la finestra e chissà quante volte i miei fratelli ed io ne abbiamo approfondito la scalfittura con chiodi o temperini nella pause consentite dal lavoro agricolo oppure nelle soste a causa del maltempo.

Coadiuvato dai familiari questo kazon venne costruito da mio padre Pietro, appena sposatosi nel 1919, dopo una permanenza di sette anni nell’Illinois (USA), dove lavorò in una miniera di rame e dove rimase infortunato ad una gamba, così che non gli fu possibile ottemperare all’ordine di mobilitazione cui la sua classe 1889 venne assoggettata, all’inizio della prima guerra mondiale.

Il kazon è posto sui tradizio­nali due piani, con la parte inferiore costruita con pietra a malta, mentre nella parte supe­riore, per mancanza di... forze, parte del muro è conglobato con argilla che, seccatasi, si mantiene ancora e trattiene gli spifferi di vento.
Per la coper­tura vennero utilizzati dei tra­vetti e della lamiere zincate recuperati nei baraccamenti di un ospedale da campo eretto dai soldati italiani sui prati lun­go il Natisone.
Capomastro della esecuzione del kazon fu Francesco Lui, un soldatino mantovano innamoratosi di mia zia Virginia che lo tenne nascosto durante l’occupazione austro ungarica successiva alla rotta di Caporetto dell’ottobre 1917.
Questo zio acquisito, vis­suto fino ad alcuni anni fa, ebbe modo di raccontarmi i particolari della operazione, il trasporto di sabbia e calce con la siviera, una specie di portan­tina, alla quale erano addette Virginia e mia mamma Raf­faella con la fatica che possia­mo immaginare. Ciò mi fa comprendere perché mia madre minutina, fine e preparata sarta, parlasse malvolentieri di que­sto suo passato.

Per noi figli, invece, il kazon costituiva una specie di elevazione sociale: ci riempi­vamo la bocca dicendo naš kazon.

I frutti

Il Lot dove era ubicato, era il nostro piccolo eden, cir­condato com’era da ogni sorta di alberi da frutto da noi ben conosciuti uno ad uno, tanto da poterli chiamare per nome. C’era melonka sul davanti, con i suoi frutti gialli, piccoli ma dolcissimi con i quali la mam­ma confezionava un gustoso strudel; c’erano la duriaà#a e la àčarnica, i due altissimi ciliegi che erano la palestra delle nostre arrampicate, ed il casta­gno, la purčinka posta dietro il kazon, con i suoi grossi rami orizzontali dove, in epoche adatte, tutti abbiamo provato l’ebbrezza dell’altalena che ci faceva volare fino sopra le lamiere del tetto.
C’erano poi il fico, le dugarepce, i korì ed altre qualità di pere che nell’arco della stagione ci garantivano il gusto del loro prodotto; noci e nocciole trova­vano posto fra le rocce messe a nudo dalle acque di piena lun­go l’argine dello Juščak; il melo cotogno, la kutna, che con il suo aroma profumava i cas­setti degli armadi della bian­cheria che costituiva la ricchez­za della sposa.
E poi i filari di uva che, quando era matura, dovevamo contendere con i merli e le ghiandaie padrone del territorio; lo stesso succe­deva con il tasso che di notte arava la terra in cerca delle patate oppure abbatteva i fusti di mais per sgranocchiare le pannocchie ancora tenere e lat­tiginose.

Durante il periodo estivo, al termine della fienagione, quan­do la parte superiore del kazon era riempita di fieno, conduce­vamo su le due mucche e la manza, mica, fermandoci a turno a dormire nel fieno aspet­tando all’alba la mamma o la Ilda che venivano a mungere le bestie per portare poi il latte nella latteria di Tarcetta.
In vista di questi pernottamenti che erano accompagnati sem­pre da un pizzico di apprensio­ne in vista di chissà quale fia­besco personaggio che poteva aggirarsi di notte, ognuno di noi cercava un amico che con­dividesse la nostra sorte, dimezzando la paura.
Di notte non mancavano certo i motivi di «preoccupazione»: dal canto della civetta ed altri rapaci not­turni allo strusciare attorno al kazon della volpe di altri ani­mali.
Questi rumori ci faceva­no trasalire e trattenere il fiato e il batticuore aumentava alla semplice caduta di un riccio di castagno sopra la lamiera del tetto.
Ridava serenità il tranquillo ruminare dei bovini e il rumore cadenzato della loro catena sull’orlo della mangia­toia.

Andare dal paese al kazon, un quarto d’ora circa, era sem­pre una camminata piacevole, perché si trattava di raggiunge­re non un luogo qualunque, bensì un kazon, un ricovero in caso di maltempo, un posto dove tenere gli attrezzi neces­sari come scale, rastrelli van­ghe e mannaie, senza doverli trasportare di volta in volta.
Anche i paesani che coltivava­no i terreni adiacenti avevano un punto di riferimento in caso di maltempo, così i cercatori di funghi e gli abitanti di Pegliano che si recavano a valle.
Ognu­nodi essi si fermava, in salita o discesa, a riposare un po’, sedendo sulla trave antistante la costruzione.

Durante il periodo di perma­nenza delle mucche, che si pro­traeva fino alla fine di ottobre si provvedeva a foraggiare gli animali con la ottava, il secon­do taglio dell’erba, oppure con le foglie degli alberi, che, ad esclusione di quelle del casta­gno, noce, rovere e qualche altra pianta, sono tutte comme­stibili e facevano risparmiare fieno per l’inverno.

Durante la stagione inverna­le, per rendere ancora più ferti­le il terreno, portavamo in fila indiana, ognuno con il suo košič, la nostra quota di letame, ed eravamo una bella fila, con il papà in testa e via via la sorella Ilda, Mario, Aurelio, Remo, Jole, Luciano e Bepo e forse anche il piccolo Beniami­no.
Ad eccezione di Aurelio, classe 1926, buono, istruito, miseramente finito diciottenne in un campo di stenninio nazi­sta, grazie a Dio siamo ancora tutti, fratelli e sorelle, a sogna­re e ricordare la parte gioiosa della nostra vita trascorsa attor­no al na# kazon.
Luciano Chiabudini
da DOM - 1995
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