Le lingue e i popoli slavi

I popoli slavi con le loro lingue e le loro culture
I popoli slavi, con le loro lingue e le loro culture, costituisco­no per molti ancora oggi un enigma o perlomeno un mondo in gran parte da esplorare.
Anche nella nostra regione, che confina con questo mondo e dove è presente una consistente comunità slovena, non sempre si hanno idee chiare sull‘origine, la storia e la distribuzione dei popoli slavi sul continente europeo.
E il colmo della confusione esiste nella nostra Slavia dove non di rado, e qualche volta intenzionalmente, si confondono e si sovrappongono termini come slavo, sloveno, protoslavo ecc.
Eppure la slavistica, e ancor prima il buon senso, l’esperienza e la conoscenza diretta della nostra realtà, hanno messo ordine in questa materia ed hanno dato il nome proprio e la giusta collo­cazione ad ogni concetto.

Ritenendo di fare cosa gradita ai nostri lettori e di contribuire a portare chiarezza in questo vasto campo della linguistica, che ci tocca direttamente, pubblichiamo l‘introduzione al volume “Lineamenti di fonologia slava” (ed La scuola Brescia 1979) scritto dal prof Aldo Cantarini che è pro­fessore associato di filologia slava presso l’università di Perugia.

Diffusione e origine degli slavi

Circa le metà dell’Europa d’oggi è abitata da popolazio­ni slave, e circa il 40% degli europei parlano come lingua materna una lingua di questo gruppo.
Insediamenti slavi sono presenti da tre secoli in tutta la fascia centro-setten­trionale dell’Asia, e un terzo di questo continente ha il russo come sua lingua ufficiale.
Oltre a queste, che sono le loro sedi stabili e tradizionali, nel corso degli ultimi cento­cinquant’anni milioni di slavi si sono trasferiti in altre parti del mondo, e delle comunità russe, ucraine, polacche e ancora di altre nazionalità conservano, spesso traman­dandola ai figli, la loro lin­gua, in America settentrionale e meridionale, in Austria e nell’Europa occidentale.

Siamo quindi di fronte ad una famiglia linguistica fra le più ampiamente rappresentate nel mondo moderno.

La compar­sa di questa famiglia alla ribalta della storia risale a non molto più di mille anni fa: le notizie che ne abbiamo da un’epoca più antica sono limitate, imprecise e malsicure.
Studiosi di storia, etnogra­fia, archeologia e linguistica hanno lungamente indagato nelle scarne testimonianze giunteci, riuscendo il più delle volte a produrre delle ipotesi che non sono suffi­cientemente documentate per poter raccogliere il consenso generale. (1)

Uno dei proble­mi più appassionanti concer­nente la preistoria degli Slavi riguarda la loro sede primiti­va:
è sicuro che nei primi secoli dell’era cristiana gli slavi occupassero un territorio molto più limitato di quello che avrebbero abitato più tardi, e pare che solo nel periodo immediatamente pre­cedente alla conversione al cristianesimo essi avessero attuato una forte espansione in tutte le direzioni, partico­larmente verso sud, giungen­do fin nel Peloponneso.
Quivi, nonostante il riflusso posteriore, parecchi toponimi ne testimoniano ancor oggi l’antica presenza.
Nel corso di queste loro incursioni, le popolazioni slave erano venu­te a contatto e a frequenti scontri con l’Impero bizanti­no.

Ma dove fosse situato il nucleo da cui gli Slavi si erano irradiati, partendo per questa conquista dell’Europa orientale, non ci è dato deter­minare con esattezza.
Pare si trattasse di una zona circo­stante l’attuale confine fra Polonia, Bielorussia e Ucraina, compresa nel territorio che si trova fra la Warta e il Dniepr; ma una localizza­zione più precisa non è anco­ra stata possibile, e forse non lo sarà mai.

Rapporti tra lingue slave e lingue indoeuropee

In epoca ancor più antica, gli Slavi si erano distaccati dal ceppo indoeuropeo, e le loro lingue ancor oggi testi­moniano indiscutibilmente l’appartenenza a questa fami­glia.
Ma fra l’epoca in cui si fratturò l’unità linguistica degli Indoeuropei e l’epoca a cui risalgono i primi docu­menti slavi intercorrono circa tremila anni, e bisogna tener conto della lunghissima dura­ta di questo periodo nel ricon­nettere le lingue degli Slavi alla primitiva unità.

Appartenendo al ceppo indoeuropeo, lo slavo comu­ne e imparentato con tutte le lingue di questo ceppo (che modernamente ricoprono tutta l’Europa, con l’eccezio­ne dell’ungherese, del finni­co, dell’estone e del basco, nonché una buona parte dell’Asia meridionale, con armeno, lingue iraniche e lin­gue dell’India centro-setten­trionale), ma è ovviamente più vicino ad alcuni gruppi piuttosto che ad altri.
I legami più stretti, dal punto di vista genetico, sembrano essere quelli che collegano lo slavo con l’iranico e col germanico, e in maniera ancor più netta, con le lingue baltiche.

Le lingue baltiche costitui­scono un gruppo fra i meno ricchi di parlanti della fami­glia indoeuropea, e oggi sono rappresentate solo da due lin­gue letterarie (il litvano e il lettone), con i rispettivi dia­letti, per complessivi 6-7 milioni di parlanti, compresi coloro che vivono al di fuori della madrepatria.
Il lituano ed il lettone appartengono ambedue al ramo orientale del gruppo baltico, mentre il ramo occidentale ci è testimo­niato dell’antico prussiano (2), lingua scomparsa nel XVIII secolo.
I testi di tutte le lingue baltiche risalgono ad un periodo ancor meno antico di quelli slavi: per il lettone partono dal XIII secolo, per il lituano e l’antico prussiano solo dal XVI.
Benché lo iato intercorrente fra la frantuma­zione dell’unità indoeuropea sia, come si vede, assai pro­lungato, questo gruppo, e par­ticolarmente il lituano, ha sempre goduto fra i linguisti della fama di essere rigorosa­mente conservativo, e di darci delle buone testimonianze delle primitive forme indoeu­ropee (3).

Fervente è sempre stata le discussione fra slavisti e balti­sti sul rapporto che intercorse in epoca preistorica fra le lin­gue baltiche e le lingue slave, e gli studiosi sono ancor oggi divisi in due campi:
quelli che sostengono che una unità balto-slava sarebbe soprav­vissuta per un periodo abba­stanza prolugato alla frattura della primigenia unità indoeuropea prima di frantu­marsi a sua volta (fra questi l’Otrebski, il Lebr-Splawinski e il Vaillant)
e coloro che invece escludono il concetto di unità balto-slava, conside­rando il distacco dei progeni­tori dei Balti e degli Slavi contemporaneo all’interruzio­ne della comunità indeuropea e sostenendo invece una con­tinuità di influssi reciproci.

Il Bernštejn, che come già il Meilett ed altri sostiene que­sta seconda ipotesi, parla di «soobščnost’», e la definisce «una comunanza delle lingue baltiche e slave, sorte non come risultato della loro comune provenienza dall’indeuropeo, ma in conse­guenza del contatto prolunga­to, avvenuto assai più tardi dell’epoca indoeuropea, e finito molto prima dell’inizio dell’era cristiana.

Note

(1) Su tutti i problemi fon­damentali che riguardano la slavistica si consulti A. Cronia, Introduzione allo stu­dio della Filologia Slava, Padova, 1949.

(2) Da non confondere col dialetto prussiano del tede­sco!

(3) Le esagerazioni in que­sto senso di alcuni linguisti del tardo Ottocento sono state però in epoca successiva abbondantemente ridimensio­nate.

Lo slavo comune

Quando parliamo di «slavo comune» o «protoslavo» (rus. praslavjanskij jazyk), intendendo quella lingua preistorica non testimoniataci da alcun testo tràdìto, abbastanza omogenea (pur non escludendo alcune differenziazioni dialettali) che parlavano tutti gli Slavi fino a qualche secolo prima della con­versione al Cristianesimo, ci riferiamo ad un concetto abbastanza astratto:
noi ricostruiamo, con i procedimenti della linguistica diacronica, vari fatti che riferiamo a quest’epoca comune, ma questi fatti non necessariamente devono essere stati contemporanei fra di loro; se dovessimo arbitrariamente considerarli tali, commetteremmo un errore di prospettiva storica, e appiatti­remmo un quadro che è valido solo nel suo contenuto dinamico.

Entro certi limiti, la ricostruzione può giungere anche a distinguere delle fasi dello «slavo comune» (in questo senso si parla di «protoslavo arcaico» o «proto­slavo recente»), ma anche all’interno della stessa fase raramente possiamo esser certi della contemporaneità di due fenomeni.
E’ stato tentato più volte di compiere un aggancio alla cronologia assoluta, basandosi su alcuni dati storici che ci sono ben noti, come l’invasione dei Goti avvenuta nel 375 d.C., o l’arrivo in Europa dei Magiari (sec. IX), ma anche queste considera­zioni sono spesso molto dubbie ed imprecise.

Lo slavo ecclesiastico

L’unità linguistica degli slavi si era già perduta al momento in cui avven­ne la loro alfabetizzazione: per questo motivo non ha potuto esser tramanda­to nessun testo slavo comune, e ciò che noi intendiamo con questo termine è solo la ricostruzione teorica che noi stessi possiamo operare sulla base di dati posteriori alla sua dissoluzione (e questa ricostruzione ha necessariamente i limiti di cui sopra si diceva).

Sotto questo profilo, cioè per la mancanza di testimonianze dirette della lingua unitaria, lo slavista si trova nella stessa situazione del germanista, costretto a ricostruire pazientemente il protoger­manico, mentre è favorito il romanista, che ha una conoscenza precisa e documentatissima del «protoromanzo», cioè del latino volgare.

Data l’assenza di testimonianze della protolingua, assumono un valore eccezionale i documenti giuntici del paleoslavo, cioè della più antica lingua che abbia una tradizione letteraria. Il paleoslavo, o staroslavo o slavo-eccle­siastico antico (tutti questi termini sono sinonimi), è la lingua in cui furono tradotti i Vangeli, i Salmi e i testi liturgici in genere, dai Fratelli di Tessalonica, Costantino-Cirillo e Metodio, quando nella seconda metà del IX secolo furono inviati dall’imperatore bizantino Michele III nella Grande Moravia, e dei loro discepoli, nel proseguimento della loro missione in Macedonia e Bulgaria.

Nel IX secolo l’unità degli slavi era venuta meno da poco tempo, e solo da qualche secolo avevano cominciato ad approfondirsi quelle differenziazioni dialettali che erano sempre esistite già nell’ambito del protoslavo, e si individualizzavano quelle che in seguito sarebbero divenute le varie lingue slave.
Era ancora pressoché completa la intercomprensione fra i popoli slavi, e Cirillo e Metodio non ebbero mai alcun problema in Grande Moravia (principato che occupava dei territori corrispondenti a un di presso all’attuale Moravia con parte della Boemia e Slovacchia, Polonia meridionale e Ungheria settentrionale) per il fatto che parlavano il dialetto bulgaro-macedone di Tessalonica (centro che aveva allora una popolazione mista, greca, prevalentemente cittadina, e slava, dispersa soprattutto nelle campagne circostanti).

Il “Canone” paleoslavo è il corpus che comprende tutte le opere lettera­rie e le iscrizioni fino alla data, convenzionalmente fissata, del 1100, cioè lo scorcio del IX secolo e i secoli X e XI per intero, e comprende prevalente­mente, ma non esclusivamente, opere tradotte dal greco, a scopo liturgico e didascalico.

Si tratta di una lingua, basata sul dialetto bulgaro-macedone dell’epoca, che divenne tuttavia subito la lingua letteraria di tutta l’area slavo-ortodossa, e assorbì anche varianti di diversa origine: per questo moti­vo non ci sembra consigliabile adottare la denominazione di «antico bulga­ro» o “veterobulgaro” data a questa lingua in modo particolare dagli studiosi bulgari, e abbastanza diffusa anche in Italia, sulle orme delle opere di Pisani e del Pagliaro.
Per una storia della lingua paleoslava sono fondamentali le opera di Leskien, Jagič e Van Wijk.

Lo slavo ecclesiastico (II)

La letteratura slavo-ecclesiastica del Canone ci è tramandata in testi scritti in due alfabeti:
il glagolitico (da glagolati «parlare»)
e il cirillico (con l’eccezione dei Frammenti di Frisinga, sloveni, scritti in caratteri latini).

Il cirillico deriva dai caratteri greci unciali del IX secolo, con l’aggiunta di alcuni segni supplementari, creati allo scopo di rendere quei fonemi che il greco non possedeva.
Sono invece mantenuti quei grafemi greci non indi­spensabili allo slavo, come csi, psi (questi due solo in cirillico, gli altri anche in glagolitico), theta e fi i due segni per /i/ (iota ed eta e per /o/ (omicron ed omega), sia per i prestiti greci, sia per la numerazione, che veniva fatta usando le sole lettere derivanti dall’alfabeto greco con il valore originario.

L’origine del glagolitico è nettamente più oscura di quella del cirillico e, nonostante le abbondanti discussioni in merito, la definitiva solu­zione del problema è ancora lontana.

I due alfabeti differiscono notevolmente nella forma (un solo grafema, corrispondente al fonema /š/, è uguale in ambedue e forse deriva dal siriaco).
Nonostante ciò la corrispondenza dei segni fra di loro è pressoché completa (si può parlare cioè di due differenti grafie dello stesso alfabeto), con l’unica eccezione costituita dal fatto che il cirillico possiede due segni distinti per /e/ e /a/, mentre il glagolitico ne possiede uno solo (oltre naturalmente l’assenza in glagolitico dei corrispondenti di csi e psi greci).

Questo ha fatto pensare che il glagolitico sia stato diffuso in quella zona in cui più a lungo /e/ ed /a/ si sono realizzati in maniera complementare, il primo dopo consonante molle, il secondo dopo consonate dura, e può anche essere interpretato come una della prove della maggiore antichità della grafia glagolitica.

Sul rapporto cronologico fra glagolitico e cirillico, appunto, si è lunga­mente discusso, anche se oggi è accettata dalla maggior parte degli studiosi la priorità del glagolitico: alcuni sostengono che questo sarebbe l’alfabeto introdotto da Cirillo al momento della missione in Grande Moravia, mentre il «cirillico» si sarebbe imposto solo ad opera dei suoi discepoli trasferitisi in Macedonia dopo la cacciata dalla Moravia.

Il cirillico è tuttora l’alfabeto in uso in Bulgaria, Macedonia, Serbia e nella Slavia orientale, pur con l’adatta­mento voluto da Pietro il Grande all’inizio del Settecento e alcune modifica­zioni successive che portano all’eliminazione di alcuni segni (in Russia nel 1918 e nel Bulgaria nel 1945) e in Serbia, Macedonia, Ucraina e Bielorussia anche all’aggiunta di alcuni nuovi.

L’alfabeto glagolitico, in cui è scritta buona parte dei più antichi fra i codici del Canone paleoslavo, venne succes­sivamente abbandonato in tutta la Slavia, con l’eccezione della Dalmazia, dove subì delle modifiche ed è usato ancora oggi nella liturgia (è recentissi­ma la ristampa di un messale per i defunti).

Le coloriture locali dei testi paleoslavi vanno accentuandosi nei secoli seguenti, e dal XII in poi l’unitarietà della lingua letteraria va dissolvendosi sempre più. Nei vari centri scrittori della Bulgaria, della Serbia e della Russia si vanno fissando delle norme che differiscono da zona a zona, e le produzioni di ogni centro si vanno caratterizzando e prendono piede i cosid­detti «slavoni»: si parlerà d’ora in poi di slavone russo, serbo, mediobulgaro ecc.

Particolarmente il primo ebbe una grande importanza nello sviluppo della lingua letteraria della Russia, di cui sostituì una componente essenzia­le.
D’altra parte, esso stesso ne ricevette dei forti influssi, in un processo di osmosi che durò fino a quando, nel corso del XVIII secolo, insieme alla letteratura di stampo prettamente laico, sorse in Russia una lingua atta ad espri­merla, cioè una lingua che ormai non recepisce più nuovi influssi ecclesiasti­ci.
Per lo slavo-ecclesiastico, d’altro canto, il momento in cui cessa l’osmosi con la lingua letteraria comporta anche una cristallizzazione definitiva:
quell’idioma, immutabile da circa due secoli e limitato nell’uso ai soli testi liturgici, è chiamato «slavo-ecclesiastico recente», e si distingue dalle fasi precedenti proprio per la caratteristica di essere pressoché privo di una dia­lettica interna e di scambi con l’esterno: esso è ormai una lingua «morta».

Non per niente già nel secolo scorso cominciò a diffondersi in Russia l’esi­genza di tradurre i testi sacri in russo (esigenza alla quale si è però soprasse­duto fino ad oggi): ciò sarebbe stato inconcepibile nei periodi precedenti, quando lo slavo-ecclesiastico era ancora sentito come vivo e produttivo, ma diventa percepibile non appena esso si cristallizza, dato che nella tradizione bizantina la lingua liturgica è sempre una lingua «viva», anche se nel livello stilistico meno corrente.

Criteri di Partizione del mondo slavo

E’ utile operare all’interno della Slavia tanto una bipartizione, quanto una tripartizione.
La bipartizione, alla quale abbiamo già accennato consiste nel distinguere l’area di influenza bizantina (la cosiddetta «Slavia ortodossa») e quella di influenza latino-germanica (la cosiddetta «Slavia cattolica», che fu in seguito anche teatro della Riforma, e in parte vi si convertì).
Le due aree, fra le quali corre una frontiera in direzione quasi esattamente nord-sud (con la Slavia cat­tolica ovviamente ad ovest e quella ortodossa ad est) sono individua­bili molto facilmente, perché nell’una è usato l’alfabeto latino oppor­tunamente e variamente modificato, nell’altra il cirillico.
L’uso dei due alfabeti differenti non recede nemmeno laddove il confine fra influsso latino e bizantino passa all’interno di un area linguistica­mente omogenea:
così, benché il croato ed il serbo siano due forme distinte di una lingua abbastanza unitaria, il primo è scritto in caratte­ri latini, il secondo in caratteri cirillici.

Oltre a questa bipartizione si è soliti anche dividere la Slavia in tre zone geografiche:
orientale, occidentale e meridionale.

La Slavia occidentale forma un blocco senza soluzione di continuità geografi­ca, ed è anche chiamata nel suo complesso Slavia settentrionale, in contrapposto alla Slavia meridionale, assai più piccola, separata dalla barriera che costituiscono tre nazioni non slave:
Austria, Ungheria e Romania.

Questa interruzione nel corpo della Slavia è di formazione relati­vamente recente (e ciò spiega gli influssi reciproci fra settentrione e meridione attivi per secoli): essa venne formandosi gradualmente nel corso del Medioevo, e ancor oggi non è portata del tutto a termine, se si pensa che tanto nel Burgenland austriaco quanto nella Dobrugia romena sopravvivono delle piccole comunità slave che costituiscono una specie di ponte fra nord e sud.

Come conseguenza di questi con­tinui scambi fra popolazioni confinanti esistono in tutta la Slavia parecchie zone di transizione nelle quali si trovano dei dialetti misti che è difficile attribuire decisamente ad un’area piuttosto che ad un’altra, ma non ci sembra necessario pustulare degli effettivi contat­ti, avvenuti in epoca storica o preistorica, ogniqualvolta si riscontrino degli elementi comuni fra lingue oggi localizzate a distanza (è questo il caso dell’akanie slavo-orientale e sloveno, o di alcuni elementi simili riscontrabili in polacco e bulgaro, o in ucraino e serbo-croato, ecc.).

Ciò è meglio spiegato, secondo noi, dal fatto che esistevano delle tendenze generali in tutta la Slavia, che sono potute affiorare in zone lontane, ed essere invece sommerse in altre, senza che il comu­ne affiorare o disperdersi implichi una concreta azione unitaria.

Le lingue slave e le loro letterature

a) Slavia meridionale

La Slavia meridionale comprede quattro lingue letterarie: lo slo­veno, il serbo-croato (che alcuni distinguono in serbo e croato) e il macedone, nel territorio della ex Jugoslavia, e il bulgaro, unica lin­gua della Bulgaria.

1) Lo sloveno

ci presenta una fra le più antiche testimonianze del Canone paleoslavo, l’unica scritta in caratteri latini: i «Frammenti di Frisinga» (Brižinski spomeniki), tre testi risalenti al X secolo che provengono dalla Carantania e dalla Pannonia, e che sembrano esse­re copie di testi risalenti alla missione pannonica di Metodio.
Essi ci danno una variante dello slavo-ecclesiastico antico con caratteri che già preludono allo svolgimento particolare dello sloveno posteriore.
Nei secoli seguenti i testi sloveni sono quasi totalmente assenti, e una nuova fioritura riprende solo nell’epoca della Riforma, particolar­mente grazie all’opera di Primo# Trubar, pastore della prima comu­nità luterana di Lubiana.
L’opera di Trubar, composta precipuamente di traduzioni di testi evangelici, catechismi e trattati protestanti, ma anche di compilazioni originali, svolge per la lingua slovena una funzione simile a quella della opere di Lutero per il tedesco.

In epoca romantica il «codifica­tore» dello sloveno è Jernej Kopitar (1780-1844), autore di una Grammatik der Slavischen Sprache in Krain, Karnten und Steiermark.
In quest’opera, secondo il modulo dell’epoca, viene rivendicato allo sloveno il valore di lingua nazionale, ma questo non implica per il filoaustriaco Kopitar delle tendenze separatistiche sul piano politico.

Pur essendo parlato da circa due milioni di persone (parte delle quali vivono in Friuli e in Carinzia), lo sloveno è una delle lingue slave maggionnente suddivise dialettamente: si contano sette gruppi principali e una quarantina di dialetti, secondo la classificazione del Ramovš (Dialekti, Ljubljana, 1936), la cui intercomprensione non è totale.

2) Serbo-croato.

Il serbo ci è testimoniato a partire dal XII secolo (vi sono però già dei testi del Canone paleoslavo che mostrano dei caratteri serbi), il croato dalla stessa epoca.

Il serbo-croato conta quasi 20 milioni di parlanti.
In Serbia, dopo una certa fioritura letteraria all’epoca dell’Impero (soprattutto letteratura di corte, nei secoli XIII e XIV) la sot­tomissione agli Ottomani, completa a partire dal 1459, pro­duce, come in tutta la penisola balcanica, una crisi culturale gravissima.

Solo nella seconda metà del Settecento si hanno i primi sintomi della rinascita con opere scritte in una lingua lettera­ria, il srbulje, con forti influssi slavo-ecclesiastici e russi, i personaggi più interessanti di quest’epoca sono Dositej Obradovic e Gavril Stefanovic Venclovic.

In ambiente croato, invece, non si ha lo iato culturale che abbiamo visto in Serbia, dato che sulla costa dell’Adriatico i turchi non riescono ad imporre la propria supremazia, con­trastati dalle navi di Venezia.

Le città dalmate sono appunto nell’orbita del dominio della Serenissima, e Dubrovnik (Ragusa) riesce a mantenere l’indipendenza col suo minu­scolo ma glorioso staterello fino agli inizi del XIX secolo, sopravvivendo di un decennio alla stessa Venezia.

La fioritura letteraria rinascimentale in queste terre non ha altri rivali che la Polonia in tutta la Slavia, e poeti come Marco Marulic (Marulo), Mavro Vetranic (Mauro Vetrano), Marin Držic (Marino Darsa) fra il Quattro e il Cinquecento, e Dživo Gundulic (Giovanni Gondola) nel Seicento dispie­gano la loro Musa lirica e drammatica in latino, croato e ita­liano, nonché nel dialetto raguseo (rafuzejski), slavo con abbondanti influssi veneti.

In Croazia i testi liturgici sono scritti oltre che in caratteri latini anche in glagolitico (il cosiddetto «glagolitico quadra­to», leggermente diverso da quello diffuso più anticamente in varie zone della Slavia), e si hanno testi a stampa già alla fine del XV secolo.

Dal Cinquecento in poi, comunque, l’uso del glagolitico è sempre più raro, pur perdurando, come si è detto, fino ai giorni nostri.

La lingua letteraria moderna fu fissa­ta ai primi dell’ Ottocento per opera specialmente di Vuk Karadzic (per il serbo) e Ljudevit Gaj (per il croato) che sistematizzarono l’ortografia seguendo un principio rigidamente fonetico: ciò dà luogo a delle alternanze grafiche all’interno della stessa radice (es. sladak «dolce», mas., slatka fem.) dove l’assordimento della -d radicale davanti alla k nel femminile è reso graficamente.

Le modificazioni dell’alfabeto latino nell’ortografia croata sono in buona parte esem­plate sullo schema creato da Hus per il ceco.

Fra serbo e croato esi­stono alcune differenze, particolarmente sintattiche e lessicali.
Fra le prime si annovera ad es. la perdita quasi complete dell’uso dell’infi­nito in serbo, sostituito con da + indicativo (questo è un carattere molto diffuso nell’area balcanica, del quale partecipano anche mace­done, bulgaro, greco moderno e albanese),
fra le seconde, oltre ad alcuni termini diversi (croato kruh, serbo hleb, «pane», ecc), la ten­denza più spiccata del croato a favore dei calchi, laddove il serbo preferisce i prestiti (serbo univerzitete, croato sveuci1ište «università») e in generale la maggior refrattarietà ai prestiti del croato (cfr. i nomi dei mesi, esemplafi su quelli latino-greci in serbo, ma di origine slava in croato); inoltre i termini di origine greca, particolarmente quelli di uso ecclesiastico o i nomi propri, provengono in serbo diret­tamente dal greco (quindi presentano la forma fonetica che avevano in questa lingua nel Medioevo), mentre in croato penetrano attraver­so la mediazione latina, ed hanno quindi la forma fonetica che il lati­no aveva preso all’inizio dell’era cristiana (es. croato Barbara, serbo Varvara; croato Betleem, serbo Vitleem, ecc.).

Ma le distinzioni dialettali più importanti all’interno dell’area serbo-croata non rispettano i confini fra la Serbia e Croazia.
E’ abi­tuale una distinzione in base ad un criterio fonologico, ed un’altra in base ad un criterio lessicale.
Ambedue i criteri danno luogo ad una tripartizione:
la prima tiene conto dell’esito dell’antica jat, che può essere e (dialetti ekavi), i (dialetti ikavi), o je/ije (secondo che la silla­ba sia breve o lunga; dialetti jekovi): es. dal psl. vekz «secolo», si ha vek, o vijek,
la seconda si serve della forma assunta dal pronome interrogativo non personale «che cosa?», che può essere što (o šta: dialetti stokavi), kaj (kajkavi, i più vicini allo sloveno), da (dakavi).

Sono possibili vari incontri fra queste due serie:
ad es. il dialetto di Belgrado e štokavo ekavo, mentre quello di Zagabria è parimenti ekavo, ma kajkavo, in Bosnia e štokavo jekavo come nella Dalmazia meridionale, dove però questo dialetto ha soppiantato il čakavo ikavo della più antica letteratura ragusea, una variante di čakavo ikavo è parlate anche in Istria.
Un insediamento štokavo ikavo, con alcuni elementi di transizione verso il čakavo, esiste anche in tre vil­laggi del Molise (Acquaviva Collecroce, Montemitro, San Felice del Molise).

La lingua letteraria moderna si basa generalmente sullo štokavo jekavo in tutta la Jugoslavia (con una predilezione però degli scrittori serbi per l’ekavo di Belgrado) e lo štokavo va guadagnando terreno sugli altri dialetti in tutta l’area.

3) Macedone.

La Macedonia fu sede di uno dei più antichi centri culturali di tutta la Slavia: Ohrid, patria di S. Clemente, diretto discepolo dei Fratelli di Tessalonica, ma la sua tradizione letteraria è unita a quella della Bulgaria fino ad epoca assai recente. Così Clemente di Ohrida e Černorizec Hrabar, due fra i principali uomini di cultura dell’epoca seguente la cristianizzazione degli Slavi, sono considerati esponenti della propria letteratura sia dai Macedoni che dai Bulgari.
Del pari i fratelli Dimitrija e Konstantin Miladinov, che raccolsero e pubblicarono canti popolari e composero versi nel seco­lo scorso, pur essendo nati in territorio macedone, sono importanti per la rinascita culturale bulgara.

Come lingua letteraria ufficialmente riconosciuta (con circa un milione e mezzo di parlanti), il macedone è l’ultima a nascere fra tutte le lingue slave, e non risale che all’ultimo dopoguerra (1944)
In Bulgaria il macedone è frequentemente trattato come un dialetto bul­garo occidentale.
Negli ultimi decenni, invece, in Jugosla­via, la fioritura di studi sul macedone è notevole, soprattut­to per opera di Blaže Koneski, autore di una fondamentale grammatica macedone, docente all’Univeristà di Skopje e poeta.
Il macedone è suddiviso in tre gruppi dialettali principa­li: orientale, occidentale e centrale.
Su quest’ultimo si basa fondamentalmente la lingua letteraria.

4) Bulgaro.

La Bulgaria fu il centro da cui scaturì la maggior parte delle opere del Canone paleoslavo, tanto che, come si disse, questa lingua è anche denominata «antico Bulgaro», e lo stadio seguente, ormai decisamente caratte­rizzato dal punto di vista nazionale, è detto «mediobulgaro» (mentre per l’epoca iniziale delle fasi nazionali delle altre lingue slave sì usa l’epiteto di «antico»).

Alla pari della Serbia soffrì una lunga decadenza culturale all’epoca del dominio turco (XIV - XIX secolo), e solo verso la fine del secolo scorso produsse una rinascita che si concretizza nella letteratura bulgara moderna.

Nei secoli XVII e XVIII si hanno delle compilazioni a sfondo religioso (prediche, letteratura apocrifa, ecc.), note sotto la denominazione di «Damaskini», ma solo alla fine del settecento compaiono i buditli (I «risvegliatori»), fra i quali il maggiore è Paisij Chilendarski, vissuto nell’omonimo monastero sul Monte Athos, compositore delle Istorija Slavenobolgarskaja, con l’intento di «risvegliare» nei Bulgari la conoscenza del loro passato e la coscienza nazionale.

Altro personaggio che collaborò alla rinascita bulgara nel primo periodo romanti­co fu Sofronij Vračanski (vescovo di Vrazza), autore di una autobiografia ricca di richiami alla storia contemporanea.

Nel bulgaro (complessivamente circa 9 milioni di par­lanti) si distinguono due ceppi dialettali:
l’occidentale, fin poco oltre Sofia, collegato col Macedone,
e l’orientale, che comprende fra l’altro la capitale medioevale Tarnovo, il che ha fatto sì chè su questo gruppo sia basata precipua­mente la lingua letteraria.

SLAVIA OCCIDENTALE



Nella Slavia occidentale contiamo attualmente cinque lingue letterarie:
il ceco (circa 10 milioni di parlanti),
lo slovacco (4 milioni),
il serbo-lusaziano superiore
e il serbo lusaziano inferiore (parlati da qualche decina di migliaia di persone nella Germania orientale -ex Ddr -)
e il polacco (34 milioni in Polonia, più alcuni milioni di emigranti che con­servano la lingua d’origine).

1. Ceco.

Influssi cechi sono riscontrabili già in alcuni testi del canone paleoslavo (il Messale di Kiev, che ci conserva alcuni testi liturgici di rito latino e il Foglietti di Praga) e la letteratura ceca ha una ricca fioritura fra il XIII e il XIV seco­lo.
Pur avendo la Moravia ricevuto il Cristianesimo da Cirillo e Metodio, la tradizione bizantina fu presto soppiantata da quella latina, in latino sono scritte parecchie delle opere ceche più antiche, fra cui la Chronica Bohemorum dei secoli XI-XII.

Una fioritura letteraria in ceco si ha nel Duecento e ancor più nel Trecento, a cui risalgono l’Alessandreide, collegata coi romanzi a tematica affine dell’Europa occidentale e di bisan­zio e la Cronaca che va sotto il nome di Dalimil.

Assai impor­tante per la vita culturale delle Boemia e dei paesi vicini a cavallo fra il XIV e il XV secolo è l’opera del riformatore reli­gioso Jan Hus.
Egli compi fra l’altro il primo esperimento sistematico - potremo dire, scientifico - di adattamento della grafia latina ad una lingua slava, su questa grafia si basano gli adattamenti successivi delle altre lingue della Slavia cattolica, nonché dell’ungherese e delle lingue baltiche, e da qui ha origi­ne anche l’uso di molti segni diacritici degli alfabeti fonetici internazionali, alla fioritura umanistica, sostenuta soprattutto dall’opera del sovrano boemo Jirì Podebrad e proseguita anco­ra nel cinquecento benché con caratteri meno originali del secolo precedente, segue un periodo di decadenza politica e culturale - il «Temno» - dopo la sconfitta della Montagna Bianca del 1620.

Anche in questo periodo la cultura ceca è illustrata da Jan Amos Komensky, perseguitato come calvini­sta e costretto all’esilio in Polinia. I suoi contributi sono parti­colarmente notevoli per le scienze pedagogiche.
Anche in area boema la rinascita si ha verso la fine del Settecento in epoca illuministico-romantica, e boemo fu Josef Dobrovsky, il filo­logo considerato fondatore della moderna slavistica.

Alcune diversità dialettali, non molto rilevanti, all’interno dell’area parlante il ceco, sono riscontrabili fra Boemia, Mora­via e Slesia.

2. Slovacco.

Lo slovacco raggiunge il rango di dignità letteraria solo nella seconda metà del XVIII secolo, la copiosa letteratura umanistica è scritta in latino e ungherese, nonché in ceco con alcune caratteristiche locali, e nel Seicento appaiono alcune composizioni in prosa e versi slovacchi di valore arti­stico assai limitato.
Nel 1746 appare una grammatica slovacca, per opera di Pavol Doležal, che è considerata come l’atto di nascita di questa lingua, anche se è scritta in latino e porta il titolo di Grammatica Slavico - Bohemica.

Nonostante l’opera di molti scrittori e teorici del periodo romantico, lo slovacco fu spesso considerato all’estero una variante dialettale del ceco fino agli inizi di questo secolo (da qui la definizione di lingua «cecoslovacca», oggi totalmente inaccettabile).

Vi si distinguono tre grandi gruppi dialettali, orientale, centrale e occidentale.

3. Serbo-lusaziano superiore e serbo-lusaziano inferiore.

La Lusazia, i cui abitanti sono detti anche Sorabi, ma chiamano se stessi Serbi, si divide in due zone:
l’una più meridionale, ma più elevata sul livello del mare, con capitale Budyšin (in tedesco Bautzen), detta Lusazia Superiore, nell’ angolo sud-orientale della ex Rdt al confine con Polonia e Cechia;
l’altra, più settentrionale, ma di minore altitudine, della Lusazia Inferiore, con capitale Chosebuz (ted. Cottbus).

La prima ha un numero superiore di abitanti ed è più attiva culturalmente della seconda.

Il serbo-lusaziano superiore è diviso in due gruppi dialetta­li, uno ad est di Budyšin (i cui parlanti sono prevalentemente cattolici) e uno ad ovest del capoluogo, nella zona protestante.

Fino a non molto tempo fa i due gruppi usavano due grafie differenti, basata sul ceco quella dei cattolici e sul tedesco quella dei protestanti (quindi con preferenza per digrammi e trigrammi anziché segni diacritici: sch / š, ecc.
Era usato per­sino un pentagramma, tzsch col valore di č)...

La lingua lette­raria codificata di recente in alcune grammatiche (particolar­mente importante quella di H. Šewc del 1968-1976) è ottenuta con una fusione dei due gruppi dialettali, con ortografia simile al ceco.

Anche nella Lusazia Inferiore, tutta prevalentemente prote­stante, si distinguono un gruppo dialettale occidentale e uno orientale.
L’ortografia, dopo aver subito nei secoli scorsi l’influsso tedesco, è stata in seguito resa più simile a quella delle lingue slave vicine.

Le prime testimonianze letterarie lusazione risalgono al XVI secolo, (escludendo alcune glosse più antiche) e precisa­mente alla prima metà del secolo quelle del serbo-lusaziano superiore, alla seconda metà quelle del serbo-lusaziano infe­riore.
A cavallo tra il Seicento e Settecento è situata l’opera di Michal Frencel e del suo figlio Abraham, ambedue pastori luterani: il primo tradusse in serbo-lusaziano superiore il Nuo­vo Testamento, il secondo compose opere sulla lingua e la storia del suo popolo e alcuni versi.

4. Polacco.

Il polacco, unica lingua ufficiale della Polonia, ci è testimoniato a partire dal sec. XIII.
Il primo testo poetico, la Bogurodzica, un inno alla Madonna di autore ignoto, pre­senta complessi problemi cronologici.

La lingua polacca subì agli inizi del suo sviluppo degli influssi abbastanza forti da parte del ceco.
Molto rilevanti sono le cronache, scritte in lati­no, da quella dell’anonimo Gallo del XII secolo e quella in dodici libri di Jan Dlugosz.

La letteratura polacca ha una straordinaria fioritura nel XVI secolo durante il quale fervono i contatti fra gli umanisti polacchi e italiani, e la lingua riceve parecchi influssi dall’italiano e dal latino.
E’ di questo secolo l’opera di Mikolaj Rej e di Jan Kochanowski, che diedero alla loro lingua un livello letterario non raggiunto all’epoca da altre lingue slave, tranne forse il dalmato - raguseo.
Cionono­stante la letteratura in latino è ancora diffusa in quest’epoca e tutti i maggiori autori compongono opere in ambedue le lin­gue.
Solo nel corso del Seicento il polacco si imporrà come unica lingua letteraria nazionale.

Il polacco è oggi diviso in quattro gruppi dialettali princi­pali:
i dialetti della Masovia,
della Piccola Polonia,
della Grande Polonia,
della Slesia:

le differenze dialettali sono comunque minime.

5) Polabo.

Nell’estremo occidente di questa parte della Slavia abitava un altro popolo slavo, i Polabi - il nome vuol dire «lungo l’Elba», ed essi dimoravano nei pressi di Hanno­ver - che nel XVIII secolo furono completamente assorbiti dai Tedeschi.

L’ultimo parlante morì intorno al 1750 e ci lasciò un diario - in tedesco - dove lamentava di non avere più nessuno con cui parlare la sua lingua.

Le prime testimo­nianze del polabo risalgono al XVI secolo, quindi si estendo­no per circa due secoli e ne fu pubblicato un corpus completo a Lipsia nel 1907.

Pubblicazione e studi più recenti sono dovuti all'Olesch.

SLAVIA ORIENTALE

Caratteristica della Slavia orientale è la molto maggiore compattezza linguistica, rispetto alle altre parti della Slavia.
All’inizio dell’epoca storica questa zona ci si presenta lingui­sticamente unitaria mentre le altre, comi si è visto, erano già piuttosto frazionate.
Solo col dissolvimento del principato di Kiev nel XII secolo e con il sorgere di un policentrismo poli­tico, nascono delle tendenze centrifughe.
Dal XIII secolo in poi si distingue un ‘area bielorussa, una ucraina e una «gran­de-russa», o russa propriamente detta.

1) Ucraino e bielorusso.

Ucraino e Bielorusso (benché una variante di quest’ultima fosse lingua di stato nel grandu­cato di Lituania già nei secoli XIV-XV) raggiungono però il rango di lingua letteraria solo di recente,
l’Ucraino alla fine del Settecento,
il Bielorusso all’inizio del secolo successivo. L’Ucraino, parlato da circa 40 milioni di persone in patria (cui si deve aggiungere una copiosa emigrazione), è la secon­da lingua slava per diffusione;
il Bielorusso conta circa 8 milioni di parlanti.
Il poeta nazionale ucraino è Taras Ševčenko (prima metà dell’Ottocento), la letteratura bielorus­sa fu illustrata dai due poeti Jakub Kolas (secolo XIX) e Janka Kupala (Giovanni Battista, pseudonimo di Jan Lucevič, 1882-1942).

Mentre il russo subì una forte influenza slavo-meridionale da parte della lingua dotta, lo slavo - ecclesiasti­co, ucraino e bielorusso furono largamente condizionati nel loro sviluppo dal polacco (l’Ucraina nei secoli XVI-XVII e la Bielorussia fino al XVIII, come parte del Granducato di Lituania, unite al Regno di Polonia).

2) Russo.

Il russo è parlato come lingua madre da almeno 120 milioni di persone, ed è conosciuto da tutti i cittadini ex sovietici: è quindi di gran lunga la più diffusa di tutte le lin­gue slave, e da solo ha più parlanti di tutte le altre insieme.

Negli ultimi decenni ha raggiunto anche una notevole impor­tanza internazionale.

Il Vangelo di Ostromir, copiato a Novgorod nel 1056, già con caratteristiche linguistiche russe, fa parte del Canone paleoslavo.

Il russo ebbe un notevole periodo di fioritura già
in epoca antica (ma opere come il Canto della Schiera di Igor’, la Cronaca degli anni passati e tutta le letteratura del periodo kieviano vengono considerate patrimonio comune di tutta la Slavia orientale);
l’epoca «classica», come è univer­salmente noto è quella dei grandi poemi e romanzi dell’Otto­cento.

Nell’immenso territorio russo vi sono due gruppi dia­lettali: settentrionale e meridionale, le cui differenze già com­paiono nei testi russi-antichi.

Una sottile fascia centrale, intorno a Mosca, ha dato origine alla lingua letteraria.
Il dia­letto moscovita faceva inizialmente parte del gruppo setten­trionale ma in seguito assorbì parecchi elementi meridionali, per cui la lingua letteraria fonde elementi di provenienza eterogenea.
da DOM
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