I nostri canti
Il testo è tratto dalla pubblicazione POD LIPO, edita nel 1999 dal coro Pod Lipo in occasione del 25° della sua istituzione. L'autore rievoca i momenti musicali più belli della sua infanzia e della sua fanciullezza.
Il repertorio di canti popolari della Benečija, regione piuttosto limitata geograficamente, è particolarmente ricco. I motivi sono diversi.
Già tutto il mondo contadino sia nel tempo sia nello spazio ha una grande predisposizione alla musica e al canto in particolare.
Questo bisogno di esprimersi attraverso la musica cresce man mano ci si inoltra tra i monti.
Inoltre tutta la cultura popolare slava è intrisa di canto.
Ciò potrebbe non giustificare appieno la presenza di un repertorio così ricco in un area tanto limitata.
Bisogna aggiungere che la Benečija è sì limitata geograficamente, appartiene però ad un'area culturale ben più vasta.
Di quest'area è parte integrante, parlo culturalmente e a quest'area ha attinto, sempre culturalmente, a piene mani.
Infine la Benečija è il trait d'union con la cultura occidentale o, più precisamente, con la cultura contadina friulana, con la quale sicuramente ha mediato abitudini, tradizioni, usanze e musica.
Oggi non riusciamo a capire l'importanza che la musica aveva nel mondo contadino.
Ne era parte integrante, inscindibile, vitale.
Non è mai esistita sia nel tempo sia nello spazio una cultura contadina senza la musica, né la musica popolare senza la cultura contadina.
Tant'è vero che morto il mondo contadino è morta anche la musica popolare.
La musica significava l'assoluta libertà di esprimere qualsiasi sentimento: di amore o di disprezzo, di affetto o di ironia, di angoscia o di odio. Una valvola di sfogo esistenziale.
Un'espressività così impulsiva e irruente doveva per forza produrre frutti di qualità eccezionale anche se sotto l'aspetto della cultura classica c'era il vuoto assoluto.
Quest'ultimo fatto, un tempo quand'ero giovane, era per me un cruccio o più precisamente una grande sofferenza interiore.
Dall'alto dei miei studi classici non accettavo che la mia gente non avesse prodotto nulla di culturalmente, sotto l'aspetto classico, valido.
Poi ho capito:
al mondo contadino, alla mia gente, non interessava proprio produrre qualcosa di classico.
Non sarebbe servito a nulla.
La gente non avrebbe saputo che farsene.
Invece la mia gente, per questi aspetti illetterata, molte volte analfabeta, sapeva soddisfare nel migliore dei modi e nella maniera più semplice e valida tutte le proprie esigenze, quelle materiali e quelle spirituali.
"Non sunt multiplicanda entia sine necessitate".
La filosofia era di casa nella mentalità della nostra gente:
non occorreva fare nulla di più di ciò che essenzialmente serviva, ma tutto, proprio tutto, quello che serviva.
Così per le esigenze materiali come per quelle spirituali.
Perché, se non per questo motivo, la cultura contadina è stata capace di migliorare il proprio habitat fino a farlo diventare (almeno nei confronti del nostro attuale) un paradiso terrestre?
Penso che solo accettando questa che per me è una verità, è possibile comprendere la cultura contadina e in particolare la bellezza del canto popolare nella sua essenzialità.
Voglio lasciarmi andare ai ricordi.
L'interesse per la musica e per il canto è nel mio DNA. Giocavo, bambinetto di pochi anni, per terra sulla nostra linda e ricordo la mia mamma, che lavorando alla macchina per cucire, cantava "Al sta ga videli mojga sinka Janka".
Era il suo canto preferito.
Per me tutti i canti erano allegri; avrei voluto che cantasse a gola spiegata, allegramente, mentre lei con la sua dolcissima voce cantava sommessamente, con la voce velata di tristezza.
Solo molto tardi ho capito che forse cantava per il bambinetto di pochi mesi che aveva perso.
Eppure avvertivo maggiormente la bellezza del canto piuttosto che la sua tristezza, tanto che, quando da basso sentivo che lavorava a macchina, mi arrampicavo su per le scale, perché ero sicuro di risentirla ancora cantare.
Quanto affetto emanava da quel canto.
Altre volte probabilmente era ancora più triste, perché sceglieva un canto che la faceva piangere:
"Beri, beri rožmarin zeleni".
A me sembrava un canto ancora più allegro e non capivo perché a un certo punto lei si mettesse a piangere.
Solo molto tardi, quando ho cominciato a sapere qualcosa del canto popolare ho capito:
aveva perso il marito a 35 anni e sfogava con quel canto dolcissimo ma dal significato funebre la sua tristezza.
Per mio nonno la gioia più grande era prendermi in braccio ancora piccolino, aprirmi la manina e contare sui miei ditini cantilenando:
"Tel je nesu v malin..."
Provava una grande soddisfazione a vedere l'eccitazione che mi invadeva quando, giunti all'ultimo ditino, recitava:
"Tel je vse sniedu."
La sua voce era stanca, più che ottantenne.
Sedeva accanto al fornello sulla sua sedia col bastone accanto.
Mi chiamava sempre.
La zia non voleva che gli andassi in braccio, perché diceva:
"Je vas umazan." (il nonno cicava).
Ciò che per la zia era "umazano" per me sapeva di affetto.
La sua voce stanca mi legava ai suoi ricordi, al lontano passato, a tante conoscenze che solo l'esperienza gli aveva insegnato e ora voleva trasmetterle a me...
Era come rivivere magicamente il suo passato.
Mia sorella Zaira era innamorata di "Snuojka sem na vahti stau" e specialmente della strofa "Ne jokaj se, ne jokaj se, saj si sama kriva; s'miela fanta luštnega zakaj z'ga zapustila."
Quello sì che era un canto allegro.
E Zaira lo cantava con un gusto che azzarderei definire sadico.
Forse un giorno oserò chiederle perché, se me lo vorrà confidare.
Mio fratello Efrem si divertiva, invece, a far arrabbiare mia zia Angelina con "Ona je miela stargane hlače, ona je miela kikjo hudo".
Capivo che a mia zia non andava giù quel "stargane hlače", nè quel "kikjo hudo".
Ma c'era di peggio, perché un giorno che, ancora bambinetto, osai intonare io quel canto, mia zia saltò su e urlò: "Ka boš te naumne pieu."
Mi mise la pulce nell'orecchio, perché per anni e anni mi sono tormentato a capire come fa un canto a essere "nauman". Così io ascoltavo ma non cantavo.
Però verso gli undici anni ereditai da mio cugino don Angelo Cont di Cicigolis tutti i suoi libri.
Per me fu una miniera.
Tanti libri in latino, ma anche tanta musica stampata e manoscritta.
E io avevo appena incominciato il do-re-mi.
Così un giorno prendo in mano un piccolo testo di musica e tento di suonare sull'armonium di mio fratello.
Non avevo letto nemmeno il titolo, perché non ero abituato a leggere in sloveno.
Suonando però mi sembrò di aver sentito già quella musica.
Mi concentrai, cercando di leggere con grande sforzo, finché mi si aprirono le orecchie: quel canto era il canto "Al sta ga videli", il canto preferito della mamma.
Che emozione, che felicità.
Uno dei momenti più belli della mia vita.
Passai tutte le vacanze dell'estate 1945 sull'armonium a tentare di leggere quei canti e, ogni volta che scoprivo uno che già conoscevo, per me era il paradiso.
Il libretto era "Slovenske narodne pesmi iz Benečije" di Rihard Orel, che ancora conservo gelosamente.
Naturalmente saltò ancora fuori il problema delle "naumne".
Lo superai senza la pretesa di aver risolto la questione, inventando una giustificazione che per me era più che valida: io suonavo, mica cantavo.
Perché avevo intuito che il problema era il testo non la musica anche se capivo che la musica richiamava inevitabilmente le parole.
E poi il libro che conteneva quei canti lo avevo avuto da mio cugino prete.
Come facevano a essere "naumni" quei canti, se era lui a possedere quel libro.
Mio zio Tinac, invece, aveva la capacità di far uscire dai gangheri mia zia.
Lui non lo potevo nemmeno ascoltare quando cantava, perché la zia mi rinchiudeva in casa.
I suoi sì che erano canti allegri.
Io capivo che erano le parole a far imbestialire la zia non tanto la melodia e capivo anche che quelli non erano canti "naumni", molto peggio, erano canti diabolici, perversi, peccaminosi.
Se li cantavi o anche se solo li ascoltavi, dovevi confessarti.
Eppure mi affascinavano.
Cosa avrei pagato per ascoltarli da capo a fondo.
Non ricordo nessuno, perché il senso delle parole era difficile, ricordo però la loro effervescente allegria e spensieratezza.
Probabilmente erano canti di scherno o, comunque, sfoghi passionali senza remore e senza pudori, espressioni di sentimenti nella più assoluta libertà. Il culmine della più profonda espressività.
C'era pure un vicino di casa, Pio Uarbanelču, che cantava e soprattutto fischiava sempre.
Era una rarità. Non si può dire che fosse stonato: lui faceva coi suoni quello che Scönberg ha fatto col sistema tonale. I canti nel suo fischio o nella sua voce acquistavano una fisionomia strana, bizzarra, inusitata, stravagante quanto si voglia ma affascinante.
Ricordo le parole di un suo canto: "Ti lo la bila". Era il suo canto abituale. Solo lui sapeva cosa significasse.
E fischiava tanto, con intonazioni irripetibili.
Sembrava di essere ai primordi della storia musicale.
Anche da adulto, pensando a Pio, mi chiedevo che piega avesse preso la musica, se tutti avessimo avuto la sua intonazione.
Lo risentii dopo tanto tempo ma non era più lui. La radio, la TV avevano sciupato tutta la sua originale specificità e il suo fascino.
E c'erano certe ricorrenze annuali che attendevamo con impazienza.
Prima di tutto le vigilie delle "Svete tri noči", quando a gruppi i giovanotti dei paesi venivano nelle famiglie per la questua natalizia.
Gli adulti ci dicevano: "Naco pridejo s kapano tisti tas Ščigli; bota vidli, kakuo bojo mliel z zvezdo."
Io però aspettavo quelli di Cicigolis non per la stella ma perché cantavano bene.
Entrando si piantavano all'ingresso e con insolita solennità e con voce pomposa e roboante intonavano "Dobro večer, gaspodinja in gaspodarji, po koledo smo paršli." E finché non avessero finito, nulla li avrebbe fatto smettere.
Anche quelli di Lasiz cantavano bene. Li sentivi arrivare cantando il "Te dan je vsega veseja". Lo cantavano nella versione che ancor oggi è conosciuta a Lasiz e a Cicigolis.
C'era anche un altro momento che io aspettavo con ansia: lo scartocciamento del mais.
Si portava tutto il mais direttamente dal campo in cucina. Per l'occasione si eliminava il tavolo dalla cucina e tutto ciò che impediva l'accumulo del mais.
Noi bambini ci divertivamo a scivolare dalla cima del mucchio anche se sapevamo che poi ci toccava ributtare le pannocchie su in alto fin sotto il soffitto. Ma il momento più bello era lo scartocciamento.
Ci si metteva d'accordo in più famiglie, in modo che in una o al massimo in due sere tutto il mais fosse scartocciato. Si prenotava anche Milijo Marnac, (un personaggio caratteristico, fratello di Gigja e Čelešta, le sue due sorelle ancor più caratteristiche), perché le sue trecce non si rompevano mai, senza dimenticarsi di comperare cinque "toškani": erano il suo salario.
La gente arrivava alla spicciolata subito dopo cena.
C'era una grande aria di festa.
Quando erano giunti tutti, la vecchia Štefanka, dato che non c'era stato tempo di pregarlo in famiglia, iniziava il santo Rosario, in sloveno naturalmente. Il rosario non si pregava, si cantava.
Un'armoniosa cantilena altalenante di voci maschili e femminili fluttuava monotona nell'aria con intonazioni tutte uguali, cadenzate, supplicanti ma gioiose.
Questo mi affascinava.
Ricordo che, essendo la mia voce troppo acuta, non riuscivo a intonarla con quelle degli altri. Allora ascoltavo.
Oggi forse mi addormenterei, allora, invece, mi lasciavo cullare da quella dolce monotonia.
Mi meravigliava il fatto che tutti intonassero allo stesso modo, allo stesso ritmo e come riuscissero a cantare così bene parlando.
Era divinamente bello.
Per anni mi sono tormentato su un termine che non capivo.
"Sveta Marija, Mat Božà...". Quel "Božà" proprio non riuscivo a immaginare cosa significasse.
Lo capii in seminario studiando lo sloveno, quando l'insegnante ci fece imparare a memoria l'Ave Maria. "Sveta Marija, Mati Božja."
Poi arrivavano le litanie. Pura polifonia. Era un momento strabiliante.
Ciascuno era pienamente libero nel ritmo e nella melodia.
La vecchia [tefanka sembrava gareggiasse con se stessa per riuscire a dire il maggior numero possibile di litanie senza respirare e quando si decideva a farlo la sua ugola si spalancava rumorosamente forzando l'aria a entrare nei polmoni come folate di vento.
Un coro di "Pros Boga za nas" tentava di seguirla, gareggiando a sua volta con lei e con se stesso, bisbigliando, mormorando, brusendo, supplicando, implorando, invocando. Ma non era scoordinazione o confusione.
Ogni voce era essenziale per ottenere quel risultato. Come in un alveare.
La stessa sensazione l'ho provata quando sentii dal vivo per la prima volta l'orchestra che preparava l'intonazione degli strumenti.
Con lo stesso orgasmo, rincorrendosi come a gara, si continuava una preghiera, della quale gustavo alcune parole che suonavano bene:
"Pod tvojo pomuoč se parporočmo, sveta Božja Porodnica... naša gospa, naša srednica, naša besednica... tvojmu Sinu nas sprav, tvojmu Sinu nas zroč, tvojmu Sinu nas parporoč, prosi za nas, sveta Božja Porodnica."
Più tardi capii che era la preghiera latina:
"Sub tuum praesidium confugimus, Sancta Dei Genitrix..."
Poi improvvisamente tutto si placava:
"Iz globočine vpijem k tebi, o muoj Buog, ušliši moj glas, naj se obarnejo tvoje ušesa na glas moje prošnjèž"
Si mormorava, si sussurrava; qualcuno sospirava e, una volta, uno è scoppiato a piangere.
Ma non era finito.
Mancava un canto, un vero canto: il "Častito".
Penso che non sarà mai più possibile cantarlo così come l'ho sentito.
Le voci si sovrastavano l'una con l'altra; le vocali molto aperte, specie le "a" e le "e", ma ben sostenute e intonate, donavano al canto un appagamento totale, come se improvvisamente tutti manifestassero la loro gioia, la loro soddisfazione e anche il loro ringraziamento per tutto ciò che era avvenuto nella giornata.
Era un canto fatto a posta per non terminare mai.
E questo ci rendeva impazienti, perché appena fosse terminato, avremmo potuto incominciare a giocare.
Questo in famiglia.
Fuori c'era la fisarmonica. Che allegria.
La fisarmonica non suonava, piuttosto parlava, raccontava, diceva le cose in maniera tale che non occorreva stare attenti per capirle.
Poteva essere lontana quanto voleva eppure si faceva sentire e riusciva a comunicare la sua traboccante allegria.
E anche noi bambini a modo nostro suonavamo.
A un certo punto dell'anno, in estate, qualcuno si accorgeva che le zucche erano cresciute e si costruiva la sua prima trombetta.
Era come se avesse dato il via. Subito iniziava la gara: la trombetta dal suono più grave, più acuto, più pernacchiante.
Perché più o meno di pernacchie si trattava, ma per noi era la più divertente orchestra del mondo specie quando decidevamo di metterci a suonare tutti insieme.
E c'era anche la chiesa. Che ambiente musicale. Che ricordi.
Ho ancora vivo nelle orecchie il rintronare di voci terribilmente acute e tremendamente e incredibilmente basse nella chiesa gremita di Antro: una massa sonora enorme che mi faceva rabbrividire fin nelle viscere.
Ricordo che nella mia fantasia di fanciullo, frastornato dagli odori d'incenso e incantato dai gesti ieratici di don Giuseppe Cramaro, ripetevo a me stesso:
"Sicuramente in paradiso si canta così."
Ancor oggi sono convinto che l'espressività umana e la capacità di coglierla hanno in sé qualcosa di divino.
Non a caso, in seguito, lo stesso rabbrividire in tutto il mio essere l'ho provato in certi momenti all'ascolto delle grandi opere musicali, come ad esempio all'inizio dell'"Andante maestoso" della IX Sinfonia di Beethoven.
"Seid umschlungen, Millionen. Diesen Kuß der ganzen Welt."
(Unitevi, o milioni di uomini. Questo bacio vada al mondo intero.)
Il fatto incredibile è questo:
dei "poveri" canti popolari sono in grado di offrire le stesse emozioni delle più grandi, universali e immortali opere.
In chiesa ogni tanto c'erano anche momenti musicali particolarmente divertenti.
Nelle grandi solennità cantava la cantoria di Antro. Era un mondo diverso. Non riuscivo a commuovermi però ero assai incuriosito.
A Natale era cantato il "Jesu Redemptor omnium" del Candotti.
La prima volta che lo sentii rimasi molto impressionato. Era un nuovo mondo.
Per un anno mi sono tormentato a immaginare in che modo il solista, il signor Blanchini di Biacis anche direttore del coro, riuscisse a fare il tremulo con la sua voce.
L'anno seguente volli verificare e coraggiosamente mi mossi dal banco e mi avvicinai al di dietro dell'altare dove la cantoria cantava.
Lo spettacolo andava oltre ogni mia immaginazione:
il signor Blanchini, riverso pericolosamente all'indietro, teneva in una mano un bastoncino che ritmicamente batteva con forza su un leggio di legno in sincronia con un piede, mentre l'altra mano vibrava energicamente sul collo, premendo sulla laringe, col risultato di una strabiliante voce caprina.
Mi sono permesso di ridere.
Fui però impressionato dal dialogo fra solista e coro, un effetto che non avevo mai prima sentito.
Il vecchio Rakar, nelle feste, inforcava gli occhiali e cantava con voce nasale, non so se per colpa degli occhiali che gli premevano sul naso (erano senza stanghette) o volutamente, l'epistola della messa.
Non capivo nulla ciò che diceva, forse anche per questo mi sembrava ridicolo.
A una festa sentii per la prima volta il violino.
Doveva essere una festa grande, perché venne a suonare "Pašarin" di San Pietro.
Anche lui mi fece ridere: si dimenava come un'anguilla arrivando con la testa quasi a toccare la terra e i suoni del suo violino assomigliavano ai lamenti di un gatto affamato.
La gente lo guardava e lo ascoltava estasiata.
Poi, dal 1944, di anno in anno sempre più il grande vuoto, il distacco dalla mia cultura... gli studi classici.
Certo, tutto è stato importante: l'approccio alle grandi opere, la guida dei miei maestri, il maestro De Marco, la professoressa Leškovič seconda mamma musicale, il maestro Pezzè (il più umile ma anche il più grande, per me, compositore friulano), l'organista e compositore don Albino Perosa col quale ho collaborato tre anni e in seguito studiato Organo e composizione organistica e che aveva vagheggiato per me un certo avvenire musicale.
Negli anni della formazione solo sporadici contatti ed estemporanee riflessioni con la mia cultura.
Per fortuna il grande ritorno, che coincise con la venuta a Mersino. Riscaraventato nel mio ambiente culturale in un paese dove, allora, quasi tutto era rimasto intatto come negli anni dell'infanzia.
I canti nelle chiese di Mersino Alto e di Mersino Basso provocavano in me le stesse sensazioni che già avevo provato nella chiesa di Antro, specie quando erano intonati certi canti come quello alla comunione "O stuo krat srečna duša".
E poi il coro spontaneo di Mersino Alto con i suoi straordinari interpreti, specie Perin Bierbu (una superba voce di tenore), Livio Lukeju, Lucjan Jaku, Sandro Klinu, e l'incontro con portatori eccezionali di canti popolari come la allora cieca Mišoka e Carlo Sinku, e la "scoperta" del testo "La musica popolare" di Bela Bartok e, infine, l'incontro col prof. Pavle Merkù proprio negli anni in cui egli lavorava alla raccolta dei canti per il suo testo "Ljudsko izročilo Slovencev v Italiji"...
Colui, però, senza il quale questa pubblicazione sicuramente non avrebbe avuto luogo è l'architetto Zaccaria Simonitti. Mi recai nel 1974 a trovarlo nel suo studio di Udine in piazza Libertà, perché avevo bisogno di consigli per costruirmi una casa.
Mi promise (e poi mi diede molto abbondantemente) il suo aiuto, però mi ricattò (un termine brutto per significare, in questo caso, qualcosa di bello) dicendomi di presentare un programma di interventi atti a risvegliare nelle Valli l'interesse per la musica e, in particolare, proponeva la creazione di un Coro a Vernasso. Vernasso aveva una ben nota tradizione musicale anche corale.
Nel successivo incontro gli prospettai la creazione di una Scuola di musica e di un coro a voci miste.
Egli aveva già provveduto a prendere contatti con la nipote Lucia Costaperaria, che si adoperò a formare il primo nucleo del Coro POD LIPO.
Allora non lo sapevo ora sì, in quel momento iniziò non solo la mia opera di maestro del Coro POD LIPO ma anche la nascita di questa pubblicazione.
Non so se o quanto sia riuscito a ottenere di quello che mi sono riproposto elaborando queste melodie.
In questi canti, come in tutto il canto popolare, melodia e testo si fondono meravigliosamente per esprimere con la massima spontaneità e semplicità gioia, allegria, pietà, preghiera e anche ironia, commiserazione, insomma qualsiasi sentimento.
Io mi sono sforzato di fondere alla melodia e al testo anche l'armonia, tentando di mantenere la stessa spontaneità e semplicità.
Devo ammettere che non sempre ci sono riuscito. A volte gli studi polifonici mi hanno preso la mano e chi sa quanti altri limiti potrebbero essere facilmente evidenziati.
Una sola cosa posso affermare con sicurezza:
ho lavorato volentieri e con impegno e mi sono divertito.
Per questo ringrazio di cuore il coro POD LIPO.
Nino Specogna
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