Il paesaggio nella storia
Il volume di Furio Bianco narra anche di due episodi di ribellione della gente della Slavia contro gli sbirri.
È stato presentato di recente nella sala consiliare della provincia di Udine il volume di Furio Bianco «Le terre del Friuli» pubblicato dalla Cierre edizioni di Verona.
Si tratta di un’elegante pubblicazione sulla formazione dei paesaggi agrari in Friuli tra il 15. e il 19. secolo, cioè dalla fine del Medio evo all’epoca della modernità e dell’industria, con la quale hanno coinciso anche mutamenti politici che hanno inciso sul sistema delle proprietà.
Queste, da allora, sono andate via via privatizzandosi e spogliandosi di antichi privilegi e immunità.
Il volume è diviso in cinque capitoli che trattano dell’assetto politico e istituzionale della Patria del Friuli in quei secoli, la ricostruzione delle campagne nel Seicento, la montagna, le origini della modernizzazione con i prosciugamenti e le bonifiche e la nuova mappa della proprietà, la ristrutturazione aziendale e il paesaggio agrario nel primo Ottocento.
A corredo dei vari capitoli sono riprodotte interessanti mappe e carte geografiche che propongono, seppure nei limiti di una esecuzione alle volte ingenua perché non supportata dai moderni mezzi tecnici, paesaggi, scorci, divisioni di terreni che danno l’immagine di un territorio che oggi è alquanto mutato.
I secoli presi in esame rappresentano in gran parte l’epoca del dominio sul Friuli della Repubblica di Venezia, la quale è rimasta nella memoria storica delle nostre valli come la garante dell’autonomia amministrativa e giudiziaria della Slavia «veneta».
Di particolare interesse per la nostra realtà è il capitolo dedicato alla montagna.
Vi si tratta in particolare delle istituzioni comunitane, della vita economica, dello sfruttamento dei boschi controllato con grande oculatezza dalla Serenissima, che aveva una grande necessità di legname sia per la sua flotta che nell’edilizia e dell’emigrazione.
Un accento particolare viene posto sul brigantaggio, che costituì un fatto endemico in Friuli «ramificandosi lungo tutta la fascia alpina e prealpina dove una parte della popolazione, dedita al contrabbando di sale, di tabacchi e di aglio, sembrava in perenne conflitto con sbirri e gabellieri».
Tra gli abitanti dei paesi di montagna si creava una forte solidarietà quando si trattava di opporsi agli sbirri che venivano mandati a sopprimere gli abusi e in particolare il contrabbando.
«All’avvicinarsi della sbirraglia ― scrive Furio Bianco ―venivano fatte suonare le campane a martello, tutta la popolazione ― uomini, donne, bambini ―abbandonava le case, lasciava i campi, i boschi e il lavoro precipitandosi in piazza, armata di archibugi, di pistole, di coltelli, di vanghe, di bastoni e sassi.
Accorrevano talvolta i capi del comune, il prete e i giurati.
Veniva convocata una frettolosa assemblea.
In brevi conciliaboli i più autorevoli vicini impartivano le prime disposizioni, cercando di intavolare faticose trattative col comandante della squadra di spadaccini, intimandogli di sloggiare.
Più spesso dopo brevi schermaglie, in un crescendo di mormorii ostili, di fischi, di grida di scherno e di plateali proteste si arrivava allo scontro e la truppa, dopo aver
fronteggiato inutilmente e con poca convinzione la folla in tumulto, abbandonava precipitosamente il campo».
In alcune occasioni le sommosse armate si trasformavano in festa e baldoria con riti carnevaleschi, rappresentazioni simboliche di esecuzioni di autorità e cancellieri.
Ma non sempre le missioni degli sbirri tra le montagne della nostra Slavia si concludevano in modo così pacifico.
Il Bianco ricorda due fatti di violenta aggressione degli sbirri:
uno si è verificato a Lusevera nel 1791, l’altro a Mersino nel 1793, che si è concluso con la raccapricciante esecuzione dei tutori dell’ordine.
Ecco la descrizione dei due episodi fatta dall’autore del volume in base ai documenti e ai verbali di processi dell’Archivio di Stato di Venezia.
«Alla fine del gennaio del 1791 venne inviato da Udine un contingente di spadaccini col compito di perquisire il paese e il territorio di Lusevera per scovare merci di contrabbando e per snidare briganti e contrabbandieri.
Il villaggio, posto nell’alta valle del fiume Torre, in territorio abitato da popolazioni slovene, era considerato dalle autorità un covo di contrabbandieri e di persone facinorose e proscritte ed era stato per alcuni anni un sicuro rifugio per la banda di Giuseppe Pascottini.
Dopo aver visitato alcune case, gli sbirri furono assaliti all’improvviso da un gruppo di donne, mentre le campane a martello facevano accorrere tutta la popolazione e gli abitanti dei vicini borghi di Micottis, di Pradielis e di Villanova.
Centinaia di persone inferocite e armate li circondarono, mentre quegli spadacciiìi che avevano cercato scampo disperdendosi tra i boschi o risalendo affannosamente i ripidi pendii delle montagne circostanti furono inseguiti e catturati.
Spogliati delle armi e derubati degli effetti personali, processati, sbeffeggiati e bastonati, furono costretti a sfilare per strade e sentieri, accompagnati da una folla festante e sbeffeggiante, per essere infine scortati fino ai confini del villaggio con l’obbligo di allontanarsi verso il fondovalle in tutta fretta, senza mai voltarsi indietro e con l’impegno di non rimettere più piede in quei territori, pena una punizione più severa».
Il fatto successo a Mersino nel maggio del 1763 ha avuto un esito molto più tragico e cruento.
«Un distaccamento di spadaccini - scrive Bianco - al comando del cavaliere di corte di Cividale, mentre si accampava in un bosco non lontano dalla villa di Mersino, cadde in un’imboscata tesa dagli abitanti di alcuni villaggi appartenenti alla signoria di Antro e Merso, che da alcuni giorni stavano tallonando i soldati.
Tutti gli sbirri, cui si imputava una lunga serie di violenze e di soprusi nei confronti della popolazione rurale, furono massacrati, i loro corpi orrendamente mutilati e sfigurati a colpi d’accetta e a coltellate.
Nel fare ritorno festosi alle loro case, dopo aver trasferito i propri feriti al di là del confine austriaco, i montanari si trattennero a fare baldoria nelle taverne, vantandosi del massacro e inalberando come trofei schioppi, pistole, tabarri e quanto era stafo sottratto agli sbirri».
Le ragioni di questa violenza erano tante.
Oltre all’antipatia e l’ostilità dovuti ai loro compiti di controllo e di repressione delle trasgressioni gli sbirri spesso si macchiavano di prevaricazioni, violenze, omicidi talvolta per futili motivi.
E queste esecuzioni erano considerate come una giusta punizione delle violenze commesse.
Un montanaro, tale Zuane Specogna, catturato all’indomani della strage di Mersino e processato si difese dicendo che l’uccisione degli sbirri rappresentava un fatto di giustizia a riparazione delle vessazioni subite.
«Qual mai altro fine potevano aspettarsi que’ ministri si incauti ―disse lo Specogna ― se non quello, che fattalmente è loro successo in quel paese, che avevano si mal concio, ed oppresso».
Lo stesso fatto, con qualche variante, è stato narrato dallo Sturolo nella descrizione di Cividale e del suo territorio (cfr. Trinkov koledar 1956).
Giorgio Banchig