Presentazione dei 4 Vangeli canonici
tradotti in Nediško
Giornata internazionale della lingua materna.
dott. Ferruccio Clavora
Oggi, 21 febbraio, viene celebrata in tutto il mondo, la Giornata Internazionale della Lingua Materna, proclama 13 anni or sono dall’UNESCO, per ricordare la sollevazione popolare avvenuta nel 1952 nell’allora Pakistan orientale in difesa del “Bangla”, madre lingua di quella parte del Paese.
Questa Giornata è, per l’UNESCO, uno strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale e delle competenti Autorità sull’importanza della salvaguardia del patrimonio linguistico e culturale del’Umanità, messo in pericolo dalla globalizzazione e dalle tendenze imperialiste delle lingue di Stato che marginalizzano e mettono a repentaglio l’esistenza stessa dello straordinario patrimonio di Sapienza rappresentato dalle seimila lingue parlate attualmente sulla Terra.
Se, come lo considera l’UNESCO, la Cultura è elemento costitutivo dello sviluppo sostenibile, la Lingua costituisce non solo un fattore determinante della promozione della diversità culturale e di un educazione conforme alle esigenze dei discenti, ma è anche un elemento essenziale della edificazione della società della Conoscenza e della Democrazia.
L’insegnamento della Lingua Materna è il punto cardinale dell’ancoraggio di ogni persona nella propria cultura d’origine, limita i pericoli di una nefasta alienazione etnico-linguistica e favorisce l’apertura agli altri in un mondo in crescente interazione. Per poter svolgere adeguatamente queste funzioni, le Lingua devono poter esistere ed espandersi liberamente. Valorizzare le Lingue significa rispettare e valorizzare gli uomini e le donne - e le loro comunità - che le parlano e le Culture che le veicolano.
L’azione dell’UNESCO è volta a creare le condizioni ambientali, sociali, intellettuali e mediatiche per lo sviluppo del plurilinguismo, inteso come strumento di accesso democratico al sapere per tutti gli Uomini, quale che sia la loro Lingua Materna.
Questa Giornata, che la comunità internazionale celebra da quattordici anni, costituisce un’occasione particolarmente significativa di riflessione e di azione a favore di tutte le lingue parlate sul nostro pianeta. Vettori di sapere, di apprendimento, di dialogo e di espressione della realtà quale percepita in ogni cultura, le seimila lingue parlate attualmente sulla terra contribuiscono tutte ad alimentare e ad arricchire, ciascuna con l’insostituibile originalità che le è propria, il patrimonio culturale dell’Umanità. Per la posizione essenziale che esse occupano nella struttura di ogni cultura, le lingue costituiscono un fattore strategico fondamentale, di cui bisogna tenere debitamente conto di fronte alle grandi sfide dell’avvenire.
Secondo gli esperti dell’UNESCO, la protezione e la promozione delle lingue materne è fondamentale per l’affermarsi di una cittadinanza mondiale e di una autentica reciproca comprensione tra popoli e comunità diversi. Capire e parlare più lingue aiuta a capire la ricchezza dell’interazione culturale del nostro mondo. Il riconoscimento e la generalizzazione dell’uso delle lingue locali permette, inoltre, ai più di partecipare attivamente all’edificazione del destino collettivo della società umana. Anche per questo, l’UNESCO opera per contribuire alla coesistenza armoniosa delle settemila lingue parlate dall’Umanità.
Quest’anno, il tema portante della « Giornata » sta nella messa in evidenza della capacità delle lingue locali ad assicurare l’accesso al sapere, la sua trasmissione e la salvaguardia delle sua pluralità. Contrariamente ai superati luoghi comuni, gli esperti dell’UNESCO affermano che le lingue locali sono perfettamente in grado di trasmettere tutti le categorie della conoscenza. La traduzione dei Vangeli nella lingua delle Valli ne è una eclatante riprova. Riconoscere queste lingue, significa anche aprire la porta all’ingresso nella sfera delle conoscenze condivise di molteplici saperi tradizionali troppo spesso sottovalutati ignorati.
L’entrata in contatto, nel villaggio globale, di popoli e di culture molto diverse rende sempre più necessaria l’opzione dell’apertura e del dialogo interculturale, associata al rafforzamento delle singole specifiche identità culturali e linguistiche. Oggi, nel mondo, per poter comunicare sia a livello locale che mondiale, la norma è l’utilizzo di almeno tre lingue: quella locale, una di grande comunicazione e una internazionale. Questa diversità linguistica e culturale rappresenta probabilmente la più grande delle opportunità per il futuro di tutte le società, compresa la nostra: per la creatività, l’innovazione, l’inclusione. Non dilapidiamola!
Ferruccio Clavora
I VANGELI IN FRIULANO
don Domenico Zanier
Il cristianesimo, che giunge a compiere le aspirazioni profetiche del giudaismo in una dimensione redentrice universale, si rapporta e si fonda sulla Bibbia. Gli scritti sulla Storia della Salvezza e sulla Rivelazione nel Nuovo e nell’Antico Testamento si devono a soggetti umani, ispirati da Dio stesso, che parlano e scrivono secondo il linguaggio del loro tempo, ma dettano valori e verità perenni.
Gesù non ha scritto. La sua dimensione comunicante è tutta nell’ambito dell’oralità e della missione concreta, ma la sua testimonianza ci è stata trasmessa dagli Apostoli e dagli evangelisti, ispirati dallo Spirito, come scrive Pietro stesso in una sua lettera. Vangeli, lettere, Atti degli Apostoli, Apocalisse costituiscono gli scritti neotestamentari. Le lingue della Bibbia sono l’ebraico, l’aramaico, il greco. Il latino, come il siriaco, il copto sono traduzioni, approvate dalla Chiesa e rese equivalenti da tale approvazione agli originali. La chiesa latina ha faticato ad avere una unica stesura, tra le varie proposte nel tempo, fino alla Vulgata di San Gerolamo, di cui conosciamo le relazioni con Aquileia. Wulfila nel IV secolo tradusse la Bibbia in Goto, una lingua germanica, ma era un vescovo ariano. Nei secoli seguenti la Chiesa a Oriente e Occidente non ha favorito la diffusione in lingue popolari, romanze o barbariche, delle Sante Scritture, più orali che scritte, in continua evoluzione e instabili. Con Cirillo e Metodio abbiamo una svolta per la conversione delle genti slave con la traduzione della Bibbia e dei testi liturgici. Di questo ci parlerà più diffusamente Simone Clinaz.
Ricordiamo che per secoli la gente era per la maggior parte analfabeta. Con la Riforma protestante che rifiutava un magistero ecclesiastico interpretativo e la tradizione, puntando esclusivamente alla Bibbia e al libero esame di essa le traduzioni divennero necessarie per una diffusione della Parola. Abbiamo quindi la Bibbia tradotta in tedesco da Lutero, cui seguirono le traduzioni in tutte le lingue maggiori, anche nell’ambito del cattolicesimo. Per le lingue minori o meno diffuse non ci fu particolare attenzione, a parte l’Engadina, anche perché molti, se non tutti, potevano leggerle in seconda lingua, maggioritaria o ufficiale nello Stato.
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Per quanto riguarda il friulano, fatta eccezione per la preghiera evangelica del Pater Noster, pubblicata insieme con la versione in quaranta lingue a Francoforte nel 1593, bisogna arrivare al XIX secolo per avere un Vangelo tradotto in lingua friulana. Catechismi in friulano sono abbastanza frequenti nel Settecento e Ottocento a stampa o manoscritti e abbiamo la traduzione dei salmi del Canonico Cividalese Giuseppe Maria Maroni, nativo di Gagliano “Il libret dai cant e cinquante salms spiegat in viars furlans”, rimasto però manoscritto, realizzato verso il 1779/80. Un’altra raccolta di salmi è apparsa nel 1794. Relative ai salmi penitenziali riscontriamo una traduzione in friulano a Gorizia nel 1820 e a San Daniele del Friuli nel 1869. Eccoci ora alla prima traduzione di un Vangelo in lingua ladina friulana. Il fatto è curioso. Fu Luigi Luciano Bonaparte, figlio di Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone a promuovere e a fare stampare questa versione a Londra nel 1860. Il traduttore firmatario risulta Pietro dal Pozzo, attuario, impiegato a Udine e a San Vito al Tagliamento. Ma c’è chi attribuisce a Jacopo Pirona la traduzione. Può darsi che ci sia stata collaborazione. La firma della pubblicazione però è di Dal Pozzo. Il Vangelo recava l’ovvio titolo di “Il Sant Vangeli di Jesù Crist secont San Mateo”. Non aveva approvazione ecclesiastica a quanto pare. Se ne stamparono duecentocinquanta copie per la Tipografia londinese StrangeWays and Walden. Questo vangelo venne ristampato con qualche aggiornamento lessicale dallo stampatore contadino Pietro Zampa, autista del vescovo Mons. Anastasio Rossi, con la collaborazione di Don Guglielmo Biasutti, allora fresco di una laurea a Roma e una a Lovanio, che in friulano si firmava Pre Elmo Blasut e che appose sempre in friulano le note di commento e spiegazione. Collaborò anche don Mattia Dorigo. L’edizione di Pradamano uscì nel 1932. In copertina accanto al disegno di una lucerna accesa si legge “Deus ac Patria Flamma”. L’edizione mi venne donata da Pietro Zampa a Pradamano nel 1959. Per arrivare alla traduzione di tutti e quattro i Vangeli bisognava aspettare il secondo dopoguerra nel generale risveglio delle piccole patrie linguistiche e in un vento di autonomia non solo politica, ma anche ecclesiale. Nel 1970 appare edito da “Risultive” il Vangelo di Matteo tradotto da Otmar Muzzolini, il quale nel 1971 con la Società Filologica Friulana pubblica la traduzione di Marco e nel 1972 quella di Luca. Infine con la Clape Cultural Aquilèe di Udine esce sempre di Muzzolini il Vangelo in friulano di Giovanni. (1975). Queste traduzioni usciranno in unico volume con le Arti Grafiche Friulane nel 1977. Va sottolineata la collaborazione e la consulenza di Mons. Aldo Moretti. Nel 1970 esce il Vangelo di N. S. G. Cristo di Francesco Placereani (Pre Checo), che giaceva manoscritto da vari anni, tradotto dall’originale greco.
Tutte le versioni hanno ottenuto approvazione ecclesiastica. Ai Vangeli con traduzione in friulano di Don Placereani e di Don Antonio Bellina inseriti nella versione dell’intera Bibbia, che ha avuto l’apporto e il sottofondo culturale di altri autori e collaboratori quali Pietro Londero, dal 1984 al 1993 si susseguirono i volumi della traduzione della Bibbia con le Edizioni Ribis, illustrate da artisti friulani d’ogni tempo. Una seconda edizione in un unico volume, alla portata di tutti, edita dall’Istituto Pio Paschini di Udine e curata da Mons. Duilio Corgnali, è apparsa nel 1997. Essa reca l’approvazione dei Vescovi del Friuli-Venezia Giulia e della Conferenza Episcopale Italiana a firma Card, Camillo Ruini.
Tralascio la storia e la pubblicazione dei vari messali, che logicamente contengono testi dei vangeli e l’ultimo lezionario, la cui grafia e lingua si scostano però dai precedenti e che il sottoscritto non considera popolarmente del tutto consona. Ma queste sono opinioni personali. L’importante è che si faccia. Se pensiamo che in Sardegna il vescovo ha detto: “Io non sono contrario, ma mettevi d’accordo” e la traduzione in sardo è ancora che aspetta.
Domenico Zannier
Casasola di Majano
11 Febbraio 2014
N. B.
Resistenze e ostacoli a traduzioni e impieghi nel culto della lingua friulana ci sono stati, non tanto per le devozioni popolari o paraliturgiche, quanto per la liturgia stessa e ci sono ancora. Roma non ha ancora approvato un messale friulano. I permessi sono a livello diocesano.
Non posiamo parlare di traduzione letterale dei Vangeli a proposito dell’opera di Claudio Bevilacqua, ora Parroco a Tarvisio, “180 Tocs di Vanzeli che si ju dopre tes Anadis Liturgichs A, B, C, - Fagagna 1993. Sono parafrasi rimate dei brani domenicali con una metrica popolare.
Nel 1993 è apparsa la traduzione dei Quattro Vangeli in dialetto milanese approvata dal Card. Martini.
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La forza della Parola
LA LINGUA MADRE, ESPRESSIONE DELLO SPIRITO
dott. Simone Clinaz
“Come i profeti profetarono in antico,
Cristo viene a riunire nazioni e lingue,
Giacché Egli è la luce del mondo”
(1)
S'ode fra le piccole borgate di una comunità insediatasi presso il grande fiume Natisone, Nediža e i suoi vari affluenti, una lingua che con i suoi suoni mette le sue radici in un passato lontano e ancora per molti versi misterioso, arcano.
Se ancora si sente, essa rinnova il legame con questo passato e sconfina nel senza tempo, per tornare all'origine di tutto, al mistero dell'esistenza.
La lingua, espressione di sentimenti umani, di realtà esterne e non solo, costituisce un dei linguaggi attraverso il quale noi veniamo a contatto con queste dimensioni.
La realtà che a noi si dichiude è quella natisoniana, attraverso la lingua nediška si parla di una comunità particolare ed originale, il suo modo di leggere il mondo, di ciò che gli sta attorno, rappresenta il suo vissuto.
La natura è ciò che prima di qualsiasi altra cosa essa sa rendere, idissolubilmente legata alla dimensione interiore dell'uomo, quella emozional-sentimentale, e la lingua locale che eccheggia in ogni rito locale, sia esso quotidiano o devozionale, non fan che rimembrarci una tradizione culturale arcaica, quella slava comune.
Secondo varie testimonianze di storici, geografi e cronachisti(2) le tribù slave, vissute da sempre sulle rive di fiumi (la zona del “medio Dnepr” (3) ) che han dato loro protezione e vita, ebbero la necessità di mantenere l'unità originaria, la quale per cause storiche e politiche rischiava di perdersi, di dissolversi.
All'epoca delle migrazioni che portarono anche fra le vallate del Natisone gli slavi (la prima grande che è comune a tutti gli altri popoli slavi è del VI-VII sec., poi successive tra X e XI sec.) (4) secondo gli studi di slavistica, la stirpe slava preistorica era sì già divisa nei famosi tre rami da cui discendono gli avi degli odierni cechi, slovacchi, polacchi, casciubi, bassolusaziani (occidentale), sloveni, serbi, croati, montenegrini, bosniaci, macedoni e bulgari (meridionale) e russi, bielorussi e ucraini (orientali), ma essi anche all'epoca conservavavano credenze e usanze comuni, un modo di vivere simile e probabilmente anche una lingua comune (5) .
Proprio questa lingua poco dissimile fra i vari slavi facilitò l'operato di due fratelli, famosi e venerati santi da tutte le nazioni slave, ma non solo, cioè Costantino-Cirillo e Metodio: essi contribuirono in maniera determinante, nello spirito ecumenico dello stesso Annuncio di Cristo, quella coesione dei popoli slavi auspicata „battezzandoli” con l'acqua cristallina e fresca della lingua appositamente elaborata (sulla base del dialetto bulgaro-macedone di Salonicco-Tessalonica) per la traduzione di testi sacri, biblici ed evangelici da originali prevalentemente greci, ossia lo slavo ecclesistico antico.
Nelle peregrinazioni assieme ai loro discepoli comprese fra il 863 e il 869 d.c., Cirillo, detto il filosofo, e Metodio arrivarono anche nella penisola italica. Vennero infatti a Roma (867 d. C) presso papa Adriano II, che consacrò prete Metodio, approvò la traduzione della Bibbia in slavo benedicendo i testi e la missione dei due fratelli con tanto di celebrazione in Santa Maria Maggiore, e poi nel 869 d.C il solo Metodio qui fu nominato vescovo presso Sirmiun in Moravia (oggi Sremska Mitrovica).
Si ricorda il loro transito per Venezia e l'infuriare del dibattito sulle lingue da usare per comunicare la parola di Dio, la cosiddetta “eresia trilinguista”, in occasione della quale Costantino -Cirillo difese in maniera brillante il diritto di tutti i popoli di conoscere la Parola di salvezza: ”Non scende forse la pioggia da Dio uguale per tutti e il sole allo stesso modo non brilla forse per tutti” (Mt. 5,45) e non respiriamo nell'aria tutti allo stesso modo?” lasciando di stucco coloro che sostenevano la dignita solo dell'ebraico, del greco e del latino, i Pilatiani (Pilato pose in queste tre lingue l'iscrizione sopra la croce di Gesù), con queste parole: “E allora come non vi vergognate di considerare solo tre le lingue e a tutte le altre genti ordinate di rimanere ciechi e sordi? (6)
E' noto il rigetto della lingua slava all'interno del clero bavarese e salisburghese alleatosi a Carlo Magno e che si contendeva con Bisanzio i territori limitrofi all'Impero dei franchi, popolato proprio da genti slave, e la riluttanza degli ecclesistici romani, poiché era un pensiero antigerarchico, andava contro il senso d'élite e d'esclusività.
Importante soffermarsi un attimo sulla Pannonia, un'antica regione, considerata da molti mitica, compresa tra i fiumi Danubio e Sava (parte occidentale dell'attuale Ungheria, Burgenland oggi Land austriaco, fino a Vienna, la parte nord della Croazia e parte della Slovenia), in particolare sulla Pannonia inferiore, che costituiva la marca indipendente del principe Kocelj, sostenitore della liturgia cristiana il lingua slava, con capitale Mosaburg sull’odierno lago Balaton (odierna Ungheria)(7).
Kocelj, profondamente coinvolto, aveva invitato a corte i santi Cirillo e Metodio per due volte, cioè tra la fine dell'866 e l'inizio dell'867 con l'intento di farli ammaestrare cinquanta prescelti alle lettere slave e poi nell'869, anno in cui Metodio fu nominato episcopo proprio qui, non senza ritorsioni e sofferenze.
Sofferenze che d'altro canto spettarono anche ai seguaci dei due fratelli di Tessalonica, che perseguitati dovettero fuggire dalla Moravia verso il sud, arrivando nella Grande Bulgaria di Boris I, proseguendo là il loro operato nella parte nord meridionale, ad Ohrida, odierna Macedonia, ed a Preslav. Poi con lo zar Simeone I (890 ca.– 930 ca), nel periodo di maggior fioritura politica e culturale di questo grande stato bulgaro, godettero della protezione e di tutto ciò che comportava l'elezione della lingua slavoecclesiastica (8) a lingua ufficiale nella liturgia (nel „periodo d'oro” della letteratura anticobulgara).
L'importanza dell'operato di Cirillo e Metodio è stata fortemente ribadita dal primissimo documento della cultura slava che si situa cronologicamente a ridosso della missione evangelica dei due santi, il trattatello „Delle Lettere” del monaco Charnorizec Hrabar (fine IX sec.) che si ricollega alle parole di Cirillo nel suo Prologo ai vangeli: “Io sono il Prologo ai Santi Vangeli [...] Non avrete
intelletto senza intelligenza, ascoltando il Verbo in lingua straniera, sarà come udire il suono di una campana di rame [...] Nude davvero sono le Nazioni senza libri propri, che senz’armi non possono combattere l’avversario delle nostre anime [...]” (9).
Nonostante il mistero della paternità, il dibattito su chi lo abbia scritto, se discepoli o ecclesistici vicini ai due santi, e qui Clemente, Naum, Angelar e via dicendo o un laico, come poteva essere lo zar Simeone, lo scritto ribadisce lo spirito che anima gli slavi dell'epoca, e questo è un anelito di unitarietà e di condivisione, ciò che può salvare un popolo e la sua cultura dalla decadenza e l'oblio, prima di tutto di valori.
Comunque, dalla Bulgaria poi molte opere passarono in altre zone dei Balcani per arrivare fino nella Rus' kieviana, dove dal X secolo gli ammanuensi trascrivono, secondo la lingua anticorussa del tempo, i testi slavi meridionali.
La lingua usata per tradurre le scritture ed annunziare la buona novella, Cirillo e Metodio influenzò tutta l'area slava.
Lo slavo ecclesistico, come visto per l'esempio della soprariportata Rus' di Kiev, nel corso del tempo si differenzia per influsso della sua diffusione areale: nelle verie chiese del mondo slavo lo conosciamo sotto forma infatti di redazione o slavone, cioè di versione locale.
Le redazioni sono ancora in uso nella chiesa ortodossa russa, serba, bulgara, macedone, mentre un discorso a parte merita la recensione in uso nella chiesa croata in glagolitico (l'alfabeto precedente al cirillico, approntato appositamente da Costantino- Cirillo per trascrivere le traduzioni dei testi sacri (10) ), ma che contrariamente alle prime presenta il rito romano.
La liturgia di rito romano celebrata dai sacerdoti glagoljaši era utilizzata già dal IX sec. in Dalmazia e Istria (dal XI o XII con l'iscrizione di Veglia per esempio) ed è rimasta attiva sino al XIX sec.
I vari codici, messali e breviari di contenuto biblico, preghiere e altri tipi di testi iniziarono a circolare dal XIV sec. in poi e si suole datare simbolicamente la fine di questa tradizione editoriale glagolitica croata con la pubblicazione del Brozićev brevijar a Venezia nel 1561 all'ormai acquisito predominio dei caratteri latini (11) .
Proprio le libere stamperie di Venezia dal XV sec. intrapresero la pubblicazione di testi religiosi da destinarsi alle comunità cattoliche di Croazia, Dalmazia ed Istria in sinergia con i correttori croati.
Se ci si sofferma su questo punto è perché la tradizione ha raggiunto simbolicamente anche le Valli per la presenza a San Pietro al Natisone di un Messale e di un Breviario glagolitici.
In Dalmazia storicamente viveva e operava la maggior parte del clero glagolitico e operava grazie al favore del Papato che a Roma poteva controllare meglio le loro pubblicazioni attraverso la Sacra Congregazione di Propaganda. Infatti proprio nella “Città eterna” vennero stampati un Messale nel 1631 e un Breviario nel 1648, che son collegati a quelli che si custodiscono in parrocchia a San Pietro. Il Messale è una riedizione del 1741 di quello del 1631 che era stato compilato dal frate francescano Rafael Levakovič, quest'ultimo curatore anche del breviario. Il testo del 1631 rappresentava allora una nuova edizione per i croati glagolizzanti, che lingisticamente però è intaccato pesantemente da numerose forme slavo-orientali, cosa che ricade sulla purezza della lingua tramandata dalle edizioni precedenti(12).
Non di scarsa importanza è il fatto che però l'ordine francescano, per ragioni di esclusività missionaria, non vedeva di buon occhio i glagoljaši, appoggiati dai vescovi croati, ed erano invisi anche ai prelati bosniaci, preoccupati delle mire espansionistiche dell'arcidiocesi di Spalato (13).
La presenza in loco di questi esemplari si ricollega alla presenza di un centro glagolitico a San Pietro attivo sino al XVII sec., chiuso con la Controriforma.
Questa due preziose edizioni ci rimandano al legame con i croati e i popoli vicini serbi e bosniaco-erzegovini, nella lingua locale si notano infatti tratti che lo testimoniano (14), oltre alla contiguità con la lingua dei fratelli dell'odierna Slovenia. Degno di nota è il fatto che le prime pubblicazioni slovene si diffusero solamente con gli ultimi anni dell'Ottocento per opera della Muhorieva Družba di Celovec ( Società di S. Ermacora di Klagenfurt, odierna Carinzia), coadiuvata da preti o di origine slovena (v. don Zupančic) o locali convinti dell'appartenenza etnico-linguistica ai fratelli sloveni d'oltreconfine.
Gli „Apostoli degli Slavi“ furono i primi a capire la fondamentale importanza di adempiere ad una cristianizzazione vera ed efficacie attraverso la creazione di un alfabeto che potesse fissare prima il Verbo, e non sarebbe stato così „come scrivere sull'acqua” (15) e che potesse poi, non più sol con linee e incisioni, rendere la peculiare espressione linguistica di questo popolo, legato fortemente proprio dal potere della parola, slovo, e da ciò la denominazione di tutti gli slavi come Slověne (Sloviene) o Slavjane (16).
L'essere slov(ì)enj-slovinj che risuona sulle labbra del popolo e che si trasforma anche in canto, non fa che esprimere quell'importanza data alla parola divina, al suo messaggio che si esprime nelle creature della natura, in quel mondo primiero che nelle Valli del Natisone trabocca, e quel ricordo non sbiadito, incancellabile di quel essere tutti derivati da una stessa fonte ed essersi riversati in migliaia di rivi e rivoli per l'Europa, anche se avvolto ancor nel mistero e per molto tempo non riconosciuto, sepolto dalla non curanza, dalla paura d'esser sé stessi, dall'ignoranza.
Ciò che per secoli ha retto la comunità delle Valli del Natisone son stati, come anche per altre realtà, il duro lavoro scandito dalle stagioni, e la fervida e devota preghiera (17) .
Questa preghiera è comune agli altri popoli della Slavia attraverso la lingua nediška, con un sapore tutto suo, per la sua storia, perché porta le tracce di un substrato che condivide tratti di quella lingua letteraria ed ecclesiastica, lo slavo ecclesiastico, che Cirillo e Motodio usarono nella loro opera di evangelizzazione dal principato della Grande Moravia fin ai Balcani, intingendo la loro piuma nel calamaio di un aperta ellenica Bisanzio.
Proprio a quella che fu la lingua di tutti gli slavi del tempo, poiché capita dalla maggioranza per la ancora non marcata differenziazione fra le tribù slave che la lingua locale in prima linea si collega, e questo sprona tutti a non dissipare queste tracce e a incoraggiare l'uso della lingua anche fra le nuove generazioni. Ben si sposa quest'idea con l'appello all'ecumenismo lasciatoci dai due grandi „Apostoli” slavi, di riunirsi tutti in nome di Dio, ciascuno con la propria cultura e lingua, senza preferenze, ma per poter prender parte a questo è importante anche per noi conoscere la nostra lingua: conoscere la lingua significa conoscere le radici, conoscere le radici è progettare un futuro coscente.
NOTE
(1) Il santo Cirillo ne' Prologo ai vangeli.
(2) In particolare la Storia naturale di Plinio il vecchio (I sec. d C.), Tolomeo, Tacito, il goto Giordane (VI sec. d.C), i cronisti bizantini Procopio e Costantino Porfirogenito.
(3) In una mezzaluna che va dalla Polonia sud-occidentale all'Ucraina nord-orientale con centro nell'odierna repubblica slovacca, detta “Culla Slava”, una regione compresa pressapoco tra il Dnepr, il Dnestr e la Vistola, più precisamente nelle zone circostanti le paludi del Pripjat.
(4) Anton Maria Raffo ipotizza un incontro fra Slavia occidentale e Slavia meridionale nella regione alpina orientale dopo aver riscontrato nel nediško caratteristiche linguistiche proprie alle lingue slave occidentali, quali il ceco e lo slovacco, e a quelle meridionali, sloveno e serbo-croato.
A riguardo si veda Alcuni rilievi sulla Slavia Veneta, con particolare riguardo alla Val Natisone all'interno di Val Natisone, 49° congresso, pag. 166.
Tra varie fonti si cita il poeta e ricercatore Giorgio Qualizza che nella sua tesi parla di ondate migratorie in tempi favorevoli, ma spicca la lettera da lui riportata del papa Gregorio I all'esarca Callinico e al vescovo di Solona Massimo che vede l'Istria come la prima porta alle infiltrazioni avaro-slave nel VII sec. (pag. 34).
Poi lo storico Milko Kos, ripreso da Bogo Grafenauer in Problemi di storia della colonizzazione della Slavia Veneta durante il medioevo con particolare riguardo alla colonizzazione slovena, ne' La storia della Slavia Italiana, (pag. 10), prevede una fase particolare di colonizzazione avvenuta nel XII sec. con coloni dall'Isonzo orientale (da Caporetto e Tolmino) che arrivano nelle Valli, mentre quelli del goriziano si insediano sul Collio. Si dice anche che il legame fra autoctoni e slavi appena insidiatisi lascia traccia nella toponomastica, prevalentemente originale e “bi-nome“ (es. Azzida: Algida/Ažla), in cui poche risultano le denominazioni propriamente slovene.
(5) T. A. Ivanova, Staroslavjanskij Jazyik, učebnik, 3-e izdanje, Sankt-Peterburg, 2001, pag 45.
(6) Da Le vite paleoslave di Cirillo e Metodio a cura di M. Garzaniti.
(7) F. Grivec, Santi Cirillo e Metodio, apostoli degli slavi e compatroni d'Europa, Accademia teologica Slovena, Roma, 1984, pag. 72: “Etnicamente la Pannonia Inferiore era abitata da stirpi slovene, che facevano da trait-d'union tra Moravi, gli Slovacchi, Croati e Serbi.
Geograficamente era abbastanza estesa e verso oriente confinava con la Bulgaria, mentre a sud-ovest aveva per confinanti i Croati. Linguisticamente le differenze tra le singole tribù erano pure notevoli: mentre a nord la lingua si confondeva con lo slovacco, a sud la parlata echeggiava il serbo-croato.
(8) Si suole dividere la storia dell'anticoslavo in tre periodi: 1) il più antico, legato all'attività diretta di Cirillo e Metodio (seconda metà del IX sec.), di cui non abbiamo testimonianze scritte, ma che ricostruiamo sulla base di documenti posteriori, 2) il periodo più tardo, legato alla prosecuzione dell'opera cirillo metodiana in Macedonia e Bulgaria dell'est, di cui conserviamo alcuni esemplari scritti della fine X -inizio XI sec. ed infine quello dello 3) slavoecclesitico, lingua attestata nelle verie redazioni.
(9) Cfr. il testo completo in R. Jakobson, Premesse distoria letteraria slava, a cura di L. Lonzi, il Saggiatore, Milano, 1975, pp. 110-112.
(10) Esistono differenti ipotesi, quella che prevale afferma che derivi, in massima parte, dal corsivo greco del sec. IX e consta di 40 lettere.
(11) Da http://www.flacius.net.
(12) Il libro liturgico veneziano per serbi e croati fra Quattro e Cinquecento, in S. Pelusi (ed.), Le civiltà del libro e la stampa a Venezia. Testi sacri ebraici, cristiani, islamici dal Quattrocento al Settecento, Padova, Poligrafo, 2000., pag. 45.
(13) P. Vrankić, La Chiesa cattolica nella Bosnia ed Erzegovina al tempo del vescovo Fra raffaele Barišić, Pontificia università gregoriana, editrice Roma, 1984, pagg. 79-81.
(14) Tratti rilevati dal famoso linguista polacco Baudouin de Courtenay e Bruno Gujon (1868-1943), filologo nostrano (Vernasso) docente di serbocroato e sloveno all'Università Orientale di Napoli. Quest'ultimo distingue i slavi Nedisci, cioè quelli della Valle sanpietrina, e quelli dell'Erbezzo, i Rečanji.
Egli ci dice: Il precipuo distintivo caratteristico del parlare dei Rečanji è una cantilena che non si avverte fra i Nedisci,(...) i quali hanno una dizione piana, maturale. Codesta cantilena che deriva da armonia vocalica si fonda sull'antitesi fra le cupe e le chiare, fra le larghe e le strette,( …) E' carattere questo delle lingue finniche e turaniche, che le lingue slave, quale più o quale meno, hanno derivato. E' perciò lecito dedurre che nel parlare dei Rečanji, come in quello dei Resiani, vi sia influsso finnico e turanico, che non s'avverte frai Nedisci. E continua:(...) Prescindendo però da quanto si riferisce ai caratteri musicali, il divario fra parlare dei Nedisci e quello dei Rečanji ci è dato ancora da diversi caratteri fonetici propri all'una e all'altra favella” (pagg. 142-143 da B. Gujon, Le colonie slave d'Italia, estratto dal IV vol. degli STUDI GLOTTOLOGICI ITALIANI, diretti da Giacomo de Gregorio, pagg. 123- 159).
Considerando la lingua nediška in toto si può notare anche varianti lessicali usate alternativamente in base all'area del tipo “collo“ šija-huràt, “ ecc... (NdA: interessante sarebbe a questo proposito l'individuazione di queste varianti con un apposito studio).
Tutto quello che è stato sopra esposto, a differenza dei dialetti sloveni, non influisce sulla reciproca comprensione.
(15) Da Vita di Costantino, XIV.
(16) Il Grivec ne' Santi dice: “(...). E' però da notare che allora sloveno non era denominazione specifica dell'attuale etnia slovena, ma indicava in genere gli slavi” (op. cit. Pag. 73).
(17) Sulla “forza e tempra” degli slavi ricorda l'imperatore bizantino Maurizio nel suo “Strategicon” (580 d.C): “(...) loro sono tanti, resistenti alla fatica, sopportano facilmente il caldo rovente, il freddo, la pioggia, la nudità, la scarsità di cibo (…) “, così come farà I. Sreznevskij nel sua breve descrizione degli “Slavi del Friuli”.
Simone Clinaz
Perché questi Vangeli tradotti in Nediško?
Zakí teli Vanğelni prevarženi po Nedisko?
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Non si può strappare la lingua a una nazione con la scusa di dargliene una migliore, anche perché una migliore non esiste. Sarebbe come strappargli la lingua di bocca. Ammutolirlo! perché le parole hanno un sincero significato solo se le vivi sulla tua pelle, sulle tue convinzioni soprattutto se sono profonde come quelle della tua fede.
Proprio per questo diventa un'emozione profonda raccontare i Vangeli con queste parole, con le parole della propria gente, con le parole che tutti amano, con la parole di tutti i giorni, con quelle per ogni occasione. Sarebbe come mescolare la propria vita alla buona novella e al mistero della salvezza.
Quando da ragazzo leggevo i Vangeli non immaginavo che un giorno li avrei tradotto nella lingua che amavo e che amo, nella lingua dei miei genitori, della mia gente. Anche se ora capisco che già allora il primo approccio a quelle sacre scritture avrebbe dovuto avvenire con la lingua più naturale, più comprensibile: il nostro Nediško.
Perché non avvenne ciò? Di chi la colpa?
Ricordo quando il parroco don Kramaro alla dottrina ci raccontava in Nediško qualche avvenimento evangelico: ricordo bene come ci raccontava la parabola del buon samaritano e particolarmente ricordo l'attenzione con la quale seguivamo il racconto, poiché parola per parola comprendevamo tutto e il racconto si fissava profondamente nei nostri cuori.
In seguito, lentamente tutto è finito. Abbiamo smarrito la strada. Ciò che pensavamo che non avrebbe potuto accadere, accadde: abbiamo perso con le parole anche la fede. E' rimasta solo una reminiscenza delle passate convinzioni, un'ombra, un'illusione, solo un ricordo. E questo oggi, sarebbe da non credere, accontenta tutti.
Potranno le familiari parole di questi Vangeli risvegliare in noi il bisogno di ricominciare e proseguire come non avessimo mai dimenticato le nostre parole del cuore, come non le avessimo stupidamente scambiate, e assieme rinnovare in noi quella fede in Cristo Gesù, la sola in grado di apportarci la salvezza?
Perché questi Vangeli tradotti in Nediško?
Gli Vangeli si possono leggere anche in italiano o in francese o in tedesco, tedesco, sloveno.
Sicuramente sì!
Però, pensiamo.
Un tempo, ma non tanti anni fa, si ascoltava il Vangelo solo durante la messa; lo si ascoltava ma non si capiva nulla, perché durante la messa si parlava solo in latino, e anche le letture erano in latino e questo in tutto il mondo nella chiesa cattolica, quindi anche in Slovenia: tutto solo in latino! E anche la messa solenne era cantata in latino (Kirje, Glorja in excelsis Deo, Credo, Sanctus, Agnus Dei): gli anziani probabilmente ricordano una messa gregoriana, chiamata “Missa de Angelis”, che tutti sapevano cantare. I canti durante la messa erano abitualmente o quelli in nediško o quelli sloveni presenti nelle raccolte di canti sloveni (le Pesmarice), che i sacerdoti caldeggiavano. Anche la predica poteva essere in vernacolo, almeno fino all'anno 1931, quando il fascismo proibì di predicare in sloveno e tutti in Italia dovevano predicare in italiano; questa proibizione durò fino alla fine della Seconda Guerra. Dopo la guerra la messa era sempre in latino, ma, chi voleva (pochi per la verità) predicava in nediško e i canti potevano essere quelli soliti.
In seguito, nel 1957, è iniziata la riforma liturgica. All'inizio era permesso leggere durante la messa in vernacolo solo le letture<. le lettere degli apostoli e il Vangelo, nient'altro. Così le messe erano tutte in latino; solo le letture erano in vernacolo.
Si è dovuto attendere il Concilio Vaticano Secondo (1962-1965) per pregare tutta la messa in vernacolo: in italiano in Italia, in francese in Francia, in tedesco in Germania, in sloveno in Slovenia... e così via.
Perché questo cambiamento? L'ha spiegato papa Paolo III: “... il grande principio, riaffermato dal Concilio, della intelligibilità, a livello di popolo, della preghiera liturgica, non che a quell’altro principio, oggi rivendicato dalla cultura della collettività, di poter esprimere i propri sentimenti, più profondi e più sinceri, in linguaggio vivo”. Papa Paolo III dice: come prima condizione bisogna capire: seconda condizione bisogna usare un “linguaggio vivo”, che significa chiaramente linguaggio vernacolo.
Così la santa messa e i Vangeli diventano un libro aperto a tutti, aperto prima di tutto con le parole che la gente conosce bene e le adopera ogni giorno.
E allora come deve essere oggi la messa, per tutta la gente, nella nostra forania?
Penso sia chiaro come deve essere: tutti devono capire bene ciò che il celebrante dice. Per questo è ragionevole pregare o leggere le letture in una lingua che la gente non capisce? Possiamo ritornare prima del 1957 o dimenticare tutto ciò che papa Paolo III ha insegnato?
E allora ecco perché questi Vangeli tradotti in Nediško: ora, per chi ha bisogno e desidera, questi sono i Vangeli tradotti in un linguaggio che tutti gli sloveni delle Valli del Natisone capiscono e amano, in un “linguaggio vivo”.
La gente delle Valli è particolarmente devota e credente, ma ancora di più innalza la sua devozione e la sua fede quando ha l'occasione di adoperare il proprio linguaggio familiare nelle preghiere, nei canti, nelle prediche, nell'insegnamento cristiano.
La religiosità e la fede per noi sono particolarmente legate alla lingua; l'evangelista Giovanni all'inizio del suo Vangelo così dice: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il verbo era Dio”.
Un tempo, neppure tanti anni fa, la gente pregava nelle famiglie in Nediško e cantava in Nediško nelle chiese i propri canti: si riconosceva nelle parole nediške. A casa e in chiesa c'erano sempre le stesse parole; non serviva nemmeno stare attenti per capire: scorreva tutto come l'acqua.
Le nostre parole nediške hanno per noi in sè qualcosa che ci commuove. Parlano prima al cuore che alla mente.
Provate leggere la morte di Gesù in italiano e poi in Nediško. In Nediško fa piangere!
Leggere i Vangeli tradotti in Nediško significa anzitutto rafforzare la nostra fede, capire meglio e più facilmente le parole, tenerle a mente, meditarle nel nostro cuore.
Cos'è di meglio!?
Ma anche un'altra considerazione bisogna fare. I Vangeli adoperano tutte le più usate parole quotidiane. Leggere il Vangelo tutti i giorni non rafforza solo la nostra fede, ma anche la conoscenza, la comprensione, la ricchezza della nostra lingua, perché dentro il Vangelo si trovano tutte le parole che ci servono per conversare con la gente.
Questi Vangeli sono uno strumento pedagogico per la salvaguardia dell'uso della nostra lingua e per rafforzare la nostra identità.
Perciò spero che questi Vangeli entrino in ogni nostra casa e che tutti li leggano ad alta voce ogni giorno, così che il Nediško riviva come un tempo nelle nostre case e con lui anche la nostra fede.
Devo aggiungere che i Vangeli sono tradotti direttamente dai Vangeli italiani della C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana), parola per parola, così bene e così letterariamente da poter facilmente prendere l'”imprimatur” della Chiesa.
Aggiungo infine che questo lavoro ha chiaramente dimostrato che in Nediško si può esprimere tutto ciò che si desidera, perché le parole non vengono a mancare mai; sta a noi poi dimostrare che leggere i Vangeli nella nostra lingua rafforza veramente la nostra fede.
Po Nediško
Se na more verìt izik nemú narodu nanč z uržuhan za mu dat dan buojš, an tud zakí dnegá buojšega ga na more bit. Bi bluo ku rauno mu vedriet izík uonz ùst. Ga zamučat! Zakí besiede imajo resničan pomien samuo če jih živiš gor ma tuojo kožo, gor na tuoje prepričanja posebno če so glaboké, ku tiste od tuoje viere.
Pru zatuo rata an poseban občutek pravt Vanğelne s telmi besiedmi, z besiedmi suojih judì, z besiedmi ki usí jubejo, z usakdanjim besiedmi, s tistim za usako zgodbo. Bi bluo ku zmešat suojo živlienje dobri novic an skriunosti zveličanja.
Kar mlad san prebieru Vanğelne niesan biu maj rajtu de an dan san jih biu prenesu u izík ki san ga jubu an ki ga juben, u izík muojih staršu, muojih judì. Nale sa zastopen de že tenčas parvo parbližanje tistin svetin pisman j bluo muorlo ratat z naraunin izikan, z narbuj zgruntanin izikan: naše Nediško. Zakí se nia tuole godilo? Či je karvica?
Se zmisnen kar famuštar Kramaro na lotrin nan j pravu po Nediško kake vanğelske zgodbe: lepuo puobnen kuo nan je pravu pargliho dobrega samaritana an posebno puobnen máranje s katerin smo sledil zgodbo, zakí besied po besied smo zgruntal usé an zgodba z besiedmi sej utikala hlabokó tu naših sarcah.
Potlé, počase usé sej komplilo. Smo zgubil pot. Kàr smo rajtal de bi na blua mogluo maj ratat, j ratalo: smo zgubil z besiedmi an viero. Je ostalo samuo no zdienje pretečenih prepričanj, na sienca, an mažurak, samuo an spomin. An tuole donas, bi bluo za na viervat, poveličuje usé.
Al bojo moglè domače besiede telih vanğelnu zbudit u nas triebo začenjat nazaj an iti naprej ku deb na bli pozabil maj naše sarčne besiede, ku de bi jih na bli maj naumno zamenil, an kupe ponovit u nas tisto viero na Ježuša Krištuša, sama skopac nan doparnest rešitu?
Zakí teli Vanğelni prevarženi po Nedisko?
Sa Vanğelne se jih more bràt an po taljansko, ol po francusko, niemsko, ….. slovensko, ol po usako špraho.
Ja kab de se jih more!
Ma popensajmo.
An krat, an ne dugo liet odtuod, sej poslušalo Vanğel cajtu maše; se gaj poslušalo ma se nia zastopilo nič, zakí cajtu maše sej guorilo samuo po latinsko, an tud berila so ble po latinsko an tuole po celín svietu tu latinski katolski cierkvi, seviede an u Sloveniji: usé samuo latinsko! An tud pieta maša j bla po latinsko (Kirje, Glorja, Sanctus, Agnus Dei): tisti parlietih višno se zmisnejo na adnó gregorjansko mašo, ki sej klicala “Missa de Angelis” an ki usí so znal piet. Piesmi cajtu maše so navadno ble ol nediške ol tiste slovenske od slovenskih pesmaricah, ki gospuodi so jh silli.
An pridga j mogla bit po ljudsko, almank do lieto 1931, kar fašizem j prepoviedu pridgat po slovensko an usi u Italiji so muorli pridgat po taljansko; tuole prepoviedanje je tardilo do koncá Druge Uiské. Po uiskija maša j bla nimar po latinsko, pa, tek j teu (malo kajšan ries), j pridgu po nediško an piesmi so ble te navadne.
Potlé, lieto 1957, j začelo liturğisko preustrojenje. Odsparvič j bluo parpuščenó prebierat po ljudstvo samuo berila cajtu maše: apoštolnove pisma an Vanğel, nič druzega.
Takuo maše so ble usé po latinsko; samuo berila so ble po ljudsko.
J korlo počakat Druzega Končilja Vatikana (1962-1965) za molit celo mašo po ljudsko: po taljansko u Italiji, po francusko u Frančiji, po niemsko u Germaniji, po slovensko u Sloveniji … an takuo naprej.
Zaki telo spreobarnienje? Joj poviedu papeš Paolo III: “... per il grande principio, riaffermato dal Concilio, della intelligibilità, a livello di popolo, della preghiera liturgica, non che per quell’altro principio, oggi rivendicato dalla cultura della collettività, di poter esprimere i propri sentimenti, più profondi e più sinceri, in linguaggio vivo”. Papež Pavel III die: parva rieč zastopit; druga rieč “linguaggio vivo”, ki pride reč, seviede, ljudska špraha.
Takua sveta maša an Vanğelni ratajo bukva odparte usian, odparte predusem z besiedmi ki ljudstvo jih lepuo pozna an jih nuca usak dan.
Antadá kuo bi miela bit donas maša, za use judi, u naši nediški gmajni?
Čen reč de je očitno kuo bi miela bit: usi bi muorli lepuo zastopit kàr mašnik die. Zatuo al je pametno molit ol prebierat berila u nin iziku ki ljudstvo ga na zastope? Al mormo se uarnit pred 1957 ol pozabit usé kar papež Pavel III je naučiu?
Antadá, lej, zaki teli Vanğelni prevarženi po Nediško: sada, za tistega ki ima potriebo an ki čé, teli so Vanğelni spreobarnjeni u ni šprahi, ki usí slovenj Nediških dolinah jo zastopejo an jubejo, u nin “linguaggio vivo”.
Nediški judje so naposebno pobožni an vierni, pa še buj uzdignejo njih pobožnost an njih viero kar imajo možnuost nucat njih domači izik tu molitvah, tu piesmah, tu pridganje, tu krištjansko učienje.
Pobožnost an viera za nas so posebno parvezane iziku; evanğelist Janež na začetku njegá Vanğelna prave: “Sparvič j bla Besieda, Besieda j bla tapar Bùoge an Besieda j bla Buog”.
Ankrat, ne puno liet odtuod, judje so molil tu družinah po Nediško an so pìel po Nediško tu ciekvah njih piesmi: so se spoznuval tu nediške besiede. Domà an tu cierkvi so ble le tiste besiede; nie korlo nanč ahtat za zastopit: j usé tekluo ku uadá.
Naše nediške besiede imajo za nas u sebé kiek ki nas zgane. Nan pravejo priet sarcu ku pamet.
Provajta prebrat Ježušovo Martro po Taljansko an potlé po Nediško. Po Nediško store jokat!
Prebierat Vanğelne prevaržene po Nedisko če reč za nas predusém omočniet našo viero, zastopit lieuš an buj lahkó besiede, jih daržat na pamet, jih premišljovat tu našin sarcu.
Kaj buojšega!
Pa še drugo rieč se muore doluožt.
Vanğelni nucajo usé usakdanje an buj navadne besiede. Prebierat Vanğel usak dàn na omočneje samuo našo viero pa tud znanje, zastopnost, bogatijo našega izika, zak not u Vanğelne se ušafajo usé tiste besiede ki nan korjo za preguarjat z judmì.
Teli Vanğelni so še pedagoğisko rodje za rešilo nuca našega izika an za omočniet našo identiteto.
Zauoj tegá se troštan de bi stopnil tu usaki naši hiš an de usi bi jih prebieral na glas usak dan, takuo de Nediško bi nazaj oživielo ku ankrat tu naših hišah, an z njin tud naša viera.
Muoren dopoviedat de Vanğelni so prevarženi na raunin taod Vanğelnu po taljansko od C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana), besieda po besied, takuo lepuo an takuo pobesìed de bi lahkó mogli sparjet “imprimatur” od Cierkve.
Doložen še, de tuole dielo je očitno pokazalo de po Nediško se more dopoviedat use kar se čé, zakí besiede na faljò maj; an stoji nan skazàt de prebierat Vanğelne u našin iziku omočneje zaries an našo viero.
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Simone Bordon
Direttore Consiglio Pastorale Foraniale
Esprimo il mio compiacimento per l’importante lavoro svolto dal prof. Nino Specogna che si è cimentato nella traduzione nel nostro dialetto sloveno dei quattro Vangeli canonici. Un’opera meritevole di essere diffusa, conosciuta e letta tra chi ancora pratica il nostro dialetto, ma anche tra chi lo ha dimenticato o non lo ha imparato a causa della temperie politica e culturale che nel dopoguerra l’ha cacciato dai luoghi dove veniva parlato, in particolare dalle famiglie. Si tratta di un interessante esercizio linguistico e letterario che gli esperti valuteranno, rilevandone i meriti, le particolarità o anche i limiti.
Non essendo io un linguista ed essendo stato chiamato nella veste di direttore del consiglio pastorale foraniale mi limito a collocare quest’opera nell’ambito ecclesiale locale. Mi piace molto che nell’invito a questa serata sia stato citato un passo del discorso che mons. Alfredo Battisti tenne il 6 gennaio 1977 al Dan emigranta, che come sappiamo viene organizzato ogni anno a Cividale. Accanto a quell’invito a conservare il nostro dialetto vorrei ricordare anche la richiesta di perdono per l’atteggiamento della Chiesa udinese che in passato era stato poco comprensivo nei confronti della nostra comunità e dei nostri diritti; ha espresso solidarietà e stima nei nostri confronti ed ha assicurato che la nostra comunità mai sarà considerata straniera o forestiera nella famiglia diocesana udinese.
Mi è stato chiesto, e mi sono chiesto, se i testi del prof. Nino Specogna potranno essere usati nella celebrazione delle Messe nelle parrocchie dove è stata virtuosamente mantenuta la tradizione delle celebrazioni in sloveno. Approfondendo mi è stato fornito il decreto del marzo 1976 con il quale lo stesso mons. Battisti stabiliva i criteri sull’uso della lingua slovena nella liturgia e nella pastorale. Nel decreto l’Arcivescovo ricordava che il suo predecessore, mons. Giuseppe Zaffonato, aveva «riconosciuto ed approvato verbalmente l’uso della lingua slovena nella sacra liturgia, sempre presente, attraverso i secoli, nella Slavia Italiana», e proseguiva: «Ritengo utile e necessario, nello spirito e nel dettato del Concilio Vaticano Secondo, confermare, con il presente documento, in forma pubblica e ufficiale, tale riconoscimento, approvando l’uso dei libri liturgici in lingua slovena, muniti della richiesta approvazione dell’Autorità Ecclesiastica, in tutte le parrocchie della Diocesi di parlata slovena», che com’è noto sono quelli approvati dalla conferenza episcopale slovena.
Questi Vangeli potranno essere diffusi e letti dai fedeli della nostra forania per edificazione spirituale, per arricchimento culturale e linguistico, per una riappropriazione del vocabolario e delle costruzioni grammaticali, in particolare del dialetto parlato nella valle del Natisone. Perché sappiamo, come recita il detto ogni paese ha la sua parlata, ogni realtà delle nostre Valli ha una variante locale. Che poi, nella prassi, i nostri sacerdoti hanno da sempre letto il Vangelo con una inflessione locale o tradotto le parole più astruse in dialetto o con una circonlocuzione per giustificare l’esigenza di rendere comprensibile la Parola di Dio. È quanto fa anche mons. Marino Qualizza durante la messa in dialetto sloveno che celebra ogni sabato sera in questa nostra chiesa parrocchiale e alla quale siamo tutti invitati a partecipare con il calore che la nostra comunità riesce a esprimere.
Buon lavoro Nino.
Simone Bordon
Direttore Consiglio Pastorale Foraniale
San Pietro al Natisone